12 febbraio 2016
In morte di Renato Bialetti, l’uomo coi baffi della moka
Paolo Griseri per la Repubblica
All’inizio fu una conchiglia di ghisa. Il fonditore Alfonso Bialetti è stato tra i primi a capire, durante un viaggio in Francia cent’anni fa, che quella conchiglia poteva servire come stampo per l’alluminio. Aveva il vantaggio, rispetto alla terracotta in uso fino ad allora, di poter essere riutilizzata centinaia di volte. Una piccola invenzione destinata a cambiare il mondo. Come l’aratro a vomere asimmetrico nell’anno Mille o gli attacchi automatici per gli sci a metà del Novecento. Con uno stampo di ghisa, in questo caso a sfaccettatura ottagonale, il fonditore Alfonso realizzò nel 1933 la prima Moka, la caffettiera destinata a mandare in pensione la classica (fino ad allora) napoletana. «L’aveva inventata – racconta oggi il nipote, Alfonso jr – guardando mia nonna che lavava i panni al lago. Sotto la bacinella del bucato c’era un fornello che scaldava l’acqua dentro un tubo con la lisciva. Il calore faceva sciogliere la lisciva, il detersivo dell’epoca, e l’acqua calda, salendo, produceva la schiuma per lavare». Nonno Alfonso pensò che lo stesso principio poteva essere utilizzato per una caffettiera di nuovo tipo: mettendo il caffé al posto della lisciva l’acqua calda saliva in pressione e diventava schiuma e bevanda. Idea geniale perché l’acqua in pressione era in grado di estrarre più principio attivo di quella semplicemente bollita, come accadeva nella classica caffettiera napoletana dove il liquido diventava caffé per semplice caduta e filtraggio, capovolgendo la macchinetta dopo averla scaldata sul fuoco. «Ma al lavoro di un inventore geniale era necessario affiancare quello di un geniale manager del marketing», racconta Alfonso jr parlando del padre, Renato Bialetti, scomparso ieri all’età di 93 anni nella sua casa di Ascona, nel Canton Ticino, a poche decine di chilometri dalla nativa Omegna. «Mio padre Renato aveva capito prima di tutti l’importanza della pubblicità», dice il figlio. E ricorda che «tutti gli amici consideravano papà un po’ matto». Non era normale, negli anni Cinquanta, costruire una gigantesca caffettiera di cartone per pubblicizzare la Moka alla fiera di Milano.
Non era consueto assoldare un disegnatore, Paul Campani, per fargli creare un omino con i baffi che sarebbe diventato uno dei protagonisti delle strisce animate di Carosello. Il volto ovale e i baffi sproporzionati erano stati disegnati partendo dal ritratto di Renato. Il successo fu enorme. La produzione schizzò alle stelle: negli anni Trenta la fabbrica di Crusinallo, una frazione di Omegna, produceva 70mila caffettiere all’anno. Dopo l’effetto- omino si arrivò a un milione di pezzi. «Quel che ci ha sempre colpito in famiglia – dice oggi Alfonso – è che dopo un inizio artigianale, con il mercato che era salito per l’effetto novità per poi assestarsi in discesa, dagli anni Cinquanta in poi la richiesta del mercato è stata elevata e continua, come se la moka fosse diventata un pezzo indispensabile nelle case. Non solo quelle degli italiani».
Perché ancora oggi, in Italia, la moka fa casa. Anche nell’era delle cialde di grandi case come la Lavazza continuano a ricavare dalla classica «mattonella», il pacchetto di caffé macinato, la parte maggiore del loro fatturato nella Penisola. Alfonso Bialetti jr offre una precisa spiegazione: «La moka è un rito. La cialda è il caffé veloce, schiacci un pulsante e ti bevi un espresso. Ma vuole mettere il piacere di svegliarsi al mattino, aprire la moka, riempire la vaschetta di caffé e attendere cinque minuti prima che l’aroma si spanda per la cucina? Quale cialda è in grado di sostituire questa sensazione?». Sarebbe un errore pensare che questo discorso sia l’ennesima trovata pubblicitaria di una famiglia di grandi manager. I Bialetti hanno venduto l’azienda da molto tempo e oggi la Bialetti Industrie è di proprietà di un’altra famiglia, la Ranzoni di Brescia. Il fonditore del secolo scorso ha lasciato in eredità la madre di tutte le moderne caffettiere. E il figlio Renato l’omino con i baffi. Alfonso jr ha cambiato settore e non per caso i baffi non li ha mai avuti: «Ma continuo a provare una grande emozione tutte le mattine, facendo il caffé».
Chiara Alessi per La Stampa
«Fomna, custa cafitéra la sarà la nòsta fortun-a!». È il marzo del 1933. Alfonso Bialetti è di ritorno dalla piccola officina e tiene in mano l’arnese a cui ha dedicato tempo, fatica, concentrazione e che da lì a vent’anni cambierà per sempre il modo di bere il caffè in Italia e poi nel mondo: è la moka express. Siamo a Sant’Anna, una piccola frazione del Cusio, sul lago d’Orta. Alfonso ha intuito che quella scoperta gli porterà una grande fortuna e la vuole condividere con la sua giovane sposa, la «fomna», Ada, che a trentatré anni gli ha già dato tre dei quattro figli. Renato, scomparso ieri a 93 anni, è il maggiore. C’è una foto divenuta emblema della famiglia: ritrae Alfonso con il suocero, il Luisin, Ada incinta di Tina, le figlie Germana e Luisanna, che indica una foto che Alfonso tiene in mano, il ritratto di Renato. È il 1944 e il primogenito è al fronte. Alla stazione di Mantova lo hanno fatto salire, sotto gli occhi della madre, su un treno «per ignota destinazione» e per due anni non se ne sono avute più notizie. Solo al suo ritorno, nel ’45, sarà uno dei pochi a poter raccontare l’esperienza di internamento in un campo di concentramento. Ma la fortuna che Alfonso aveva solo immaginato stava per tornare alla famiglia attraverso Renato, gran fiuto e spregiudicatezza per gli affari. Nel ’57 l’azienda è definitivamente sua: capitalizza l’invenzione della moka, fa di se stesso un’icona della pubblicità, il celebre «omino coi baffi» del Carosello, espande la fabbrica di Crusinallo, sede dell’azienda fino al 2010, quando una delle nuove proprietà che aveva acquisito il marchio, ha chiuso per sempre la produzione locale. Con Renato, la moka diventa un’icona del made in Italy. Bialetti è uomo di grandissimo carisma, incredibile fascino dandy, «l’uomo delle due Rolls Royce» - una bianca per l’estate e una nera per l’inverno, quando l’unica macchina che si era concesso il padre Alfonso era una Fiat 509 con cui si era schiantato poco dopo l’acquisto – ma anche intellettuale. «Io sono randagio» è il titolo di una sua raccolta di poesie. Con Renato Bialetti, morto ad Ascona, nel Canton Ticino, se ne va un simbolo dell’Italia industriale.