Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 12 Venerdì calendario

Isabella Ragonese e la libertà di uccidere, disprezzare o abbracciare chiunque. Ma solo sul set

La professoressa di latino e greco, al liceo classico di Palermo, ci aveva visto giusto. «Ero introversa. Più che parlare, ascoltavo. Mi consigliò un laboratorio teatrale. Quando sono salita sul palco ho capito che, lassù, potevo fare tutto».
In Italia ci sono i totem (Loren, Vitti, Sandrelli, Cardinale) e le categorie: le attrici di teatro, cinema e tv. E poi c’è Isabella Ragonese, cresciuta in via Remo Sandron, affacciata sull’Ucciardone, che a 16 anni girava in Vespa con il bauletto pieno di sogni annusando gli odori della città tra i corsi di Teatès, Mimmo Cuticchio, Emma Dante e Gigi Borruso e che oggi viaggia alla considerevole velocità di 34 anni e 19 film, mai banali. Fa teatro, tanto (la tournée di «Dobbiamo parlare» finirà a marzo). È stata scoperta da Virzì, diretta da Lucchetti, Mazzacurati e Rubini. Ha girato con il raffinato Elio Germano e il nazionalpopolare Fabio Volo, Charlotte Gainsbourg e Silvio Muccino, Mastandrea e Bentivoglio, in preda a una curiosità famelica, una forma di nutrimento che prescinde da persone e generi e riguarda il mestiere di attrice: è quasi onnivora, cioè, senza mai dare l’impressione di saziarsi. Scrive saggi, ha letto i diari di Ilaria Alpi e fatto Virginia Woolf. Aspetta l’uscita di «Sole, cuore e amore», il nuovo film di Vicari, e poi non sa cosa farà. Letteralmente. «Essere siciliana mi dà testardaggine e orgoglio ma anche fatalismo. Quando nasci in un’isola puoi avere tutti gli impegni del mondo ma se il mare è brutto non vai da nessuna parte. Ecco, la mia terra mi ha insegnato a non aspettarmi nulla».
La meglio gioventù
Nella meglio gioventù del cinema italiano contemporaneo, Isabella è quella con la zazzera rossa, il sorriso dolcissimo, una solida preparazione di base su cui svariare, entrando e uscendo dai copioni, pilotata dalle cinquanta sfumature di sensibilità di Rosa, Marta, Sara, Camilla, Elena, Nena, Paolina, Lucia, le donne di cui si è svestita e rivestita. «Non sono per i virtuosismi, la tecnica esasperata. Da spettatrice mi piace chi fa accadere le cose. Come la grande ballerina che ti fa dimenticare lo sforzo e sembrare tutto facile. Per pudore non mi piace approfittare dei miei stessi dolori: non piango a comando, per esempio, quando lo faccio uso le lacrime finte, non credo che piangere veramente pensando allo zio morto sia garanzia di qualità. L’emozione passa per altre vie». L’amore, senza giudizio, per il ruolo ad esempio. «Mazzacurati mi ha insegnato a voler bene ai personaggi. Anche quelli storti o sbagliati. È facile giudicare Linda, la ragazza implosa che nella commedia di Rubini si mette in disparte: io sono diversa. Ma il lavoro dell’attore è sviluppare tutte le parti di sé, anche quelle che non conosci, come quando mi chiedono di interpretare una madre. Se vai a scavare dentro, le sfumature le trovi tutte, pure le cose brutte che io tendo a rimuovere. Nessuno può essere definito in tre aggettivi. Quello dell’attore è un lavoro artigianale».
Un posto nel mondo
Isabella si appunta stati d’animo, gesti di chi la colpisce, persino gli odori con cui, dalla Vucciria al teatro Massimo, dalla chiesa di San Michele a via Pipitone Federico, dove abitava la nonna, identificava i quartieri di Palermo. Arriva in camerino con il suo trolley zeppo di vita. Si mette l’abito di scena. Prende fiato. E comincia. «Il palco, il set, sono luoghi protetti, dove so che non mi può succedere niente di male. Sono più me stessa lì che nella vita di tutti i giorni. La maschera dell’attore ti dà la libertà di osare, di fare cose di cui normalmente mi vergognerei. Un bacio appassionato a un collega appena conosciuto, una scena di sesso con una donna, un urlo a squarciagola, un pianto a dirotto. Puoi uccidere, sudare, disprezzare, abbracciare chiunque. Oggi non posso immaginarmi a fare altro: ho la fortuna di aver trovato il mio posto nel mondo». È in buona compagnia, peraltro. Sia nella vita privata (il suo compagno è il cantante più alternative rock della scena italiana: il frontman dei Subsonica Samuel Umberto Romano) che sul lavoro: «Tra attori è difficile essere amici ma sento fratellanza con tutte le persone con cui ho lavorato. Germano, Riondino, la Solarino… So che non sono diventati attori per tirarsela. Siamo figli degli Anni 80, cresciuti senza conoscere di persona i grandi maestri e senza divisioni di generi».
L’arte come terapia
«Nuovomondo» è stata l’esperienza iniziatica, «Tutta la vita davanti» il film-simbolo di una generazione di precari, «Dieci inverni» una piccola e sensibile opera prima, «Viola di mare» il racconto di un amore lesbico ante litteram (a Favignana nell’Ottocento) diventato cult: «Incontro ancora ragazze che mi ringraziano per essersi sentite meno sole». L’arte come terapia salvifica: «Recitare è una grande opportunità. Faccio esperienze di mille vite che si accumulano, diventando mie». Nessun rischio di perdersi, dietro tante facce? «No, non credo. I miei miti sono gli attori che lavorano per sottrazione: sono se stessi però ci mettono la firma. Mastroianni poteva fare il fruttivendolo o il latin lover senza perdere credibilità. Meryl Streep è sempre un valore aggiunto. Provo rancore per il modo in cui se n’è andato Philip Seymour Hoffman, privandoci del suo talento. Lavoro per arrivare a quel tipo di sottilissimo equilibrio tra verità e finzione. E mi piace pensare che il prossimo film sarà sempre migliore». Anche l’Italia le ispira un senso di indulgente ottimismo: «Sono per la libertà di scelta delle donne: da noi i cambiamenti culturali sono lentissimi ma la discussione sulla questione femminile, dalla parità di genere alla violenza, qualche porta l’ha aperta. Nella politica, certo, ma anche nel cinema. Oggi gli autori scrivono di più pensando a noi, alle nostre rivoluzioni silenziose».
Il viaggio di Isabella non finisce qui. «Mi sembra incredibile che quella ragazzina palermitana sia arrivata a Roma per fare cinema». Da via Sandron a Cinecittà, senza perdersi di vista.