Corriere della Sera, 11 febbraio 2016
Come salvare il sogno europeo
La ripresa dei controlli alle frontiere con la sospensione di Schengen, il rischio concreto di Brexit e ora l’approvazione della finanziaria da parte del Portogallo senza il parere preventivo di Bruxelles. Non sono tutti segnali di un lento ma progressivo sgretolamento dell’Europa?
Gabriele Salini
gabriele.salini@gmail.com
Caro Salini,
Esistono crisi in cui brancoliamo nel buio alla ricerca di un rimedio. La crisi del progetto europeo, invece, appartiene alla categoria di quelle in cui i rimedi sono ben conosciuti. Sappiamo che il bilancio della Commissione europea è drammaticamente insufficiente alle esigenze dell’Ue. Sappiamo che l’Unione bancaria non sarà compiutamente realizzata sino a quando saremo privi, come ha ricordato Federico Fubini sul Corriere del 7 febbraio, di una garanzia comune sui depositi, «in modo da evitare il panico e la corsa agli sportelli nel caso di una crisi locale», come è accaduto nel caso della Grecia. Sappiamo che non è possibile avere una moneta unica senza un ministro europeo della Economia. Sappiamo che il compromesso con la Gran Bretagna per evitare la sua uscita dall’Ue avrà l’effetto, come ha ricordato Francesco Giavazzi sul Corriere del 7 febbraio, di spalancare la porta ad altri negoziati con tutti i malcontenti dell’Unione.
Sappiamo che la mancanza di una politica europea della Difesa ci costringe a finanziare l’industria bellica degli Stati Uniti, soprattutto nel settore aeronautico. Sappiamo che la libera circolazione delle persone all’interno di un’area europea presuppone l’esistenza di una frontiera comune, di una politica europea dell’immigrazione e di un diritto d’asilo europeo.
Ma la consapevolezza dei rimedi non ci impedisce di continuare a rinviare o diluire le riforme di cui il progetto europeo ha urgente bisogno. Anche le cause del fenomeno sono note. La costruzione di una Unione sempre più integrata ha favorito in ciascuno dei suoi membri, come era prevedibile, la nascita di una opposizione nazionalista e populista. La crisi finanziaria del 2008 ha provocato una recessione che ha considerevolmente allargato la massa dei malcontenti. Le elezioni hanno costretto molti governi a corteggiare i partiti populisti e questi, a loro volta, ne hanno approfittato per boicottare o snaturare le riforme più coerentemente europee. La crisi, quindi, è anche una crisi delle democrazie, sempre meno capaci di concepire progetti che non siano dettati dalla rabbiosa miopia dei gruppi sociali più nazionalisti e retrivi.
Non tutti i Paesi fortunatamente sono altrettanto indifferenti al progetto europeo. Esiste ancora un nucleo originale – i 6 della Ceca e del Mercato Comune – che non intende rinunciare all’integrazione e a cui potrebbero associarsi altri Paesi dell’eurozona fra cui certamente la Spagna. La riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi fondatori a Roma il 9 febbraio potrebbe essere il primo passo di un ritorno alle origini che avrebbe il vantaggio, tra l’altro, di favorire un più razionale negoziato con la Gran Bretagna. Le concessioni fatte a Londra potrebbero essere estese ad altri Paesi dell’Unione meno favorevoli alla integrazione e contribuire così alla nascita di una Europa in cui vivrebbero insieme due gruppi di Paesi con diverse ambizioni e diversi progetti. È l’Europa a due velocità, una soluzione ripetutamente prospettata da un uomo politico tedesco, Wolfgang Schäuble, e da coloro a cui preme non rinunciare al sogno di Ventotene.