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 2016  febbraio 11 Giovedì calendario

Nel suo nuovo libro Carrère parla soprattutto di se stesso

Esce oggi in Francia un libro di 560 pagine che è una autobiografia di Emmanuel Carrère. In quel libro si parla della vita di Alan Turing, di Moll Flanders di Daniel Defoe, del caso Romand che sarà poi l’oggetto di L’avversario, di Truman Capote, delle donne fontana, dell’amico intellettuale diventato eroe dell’estrema destra Renaud Camus, di Catherine Deneuve e di molte altre cose quindi, più che altro, di Emmanuel Carrère, il molto amato scrittore francese capace di piegare anche il vangelo di Luca (nel Regno, l’opera precedente) in un testo che parla di sé più che di Gesù o dei primi cristiani.
Il est avantageux d’avoir où aller (P.O.L. éditeur, in Italia uscirà per Adelphi) è il titolo tratto dal Yi-Jing, il Libro dei Mutamenti cinese. «Propizio quando c’è un luogo in cui andare» è una frase che si addice alla raccolta di reportage, prefazioni e articoli scritti da Carrère nel corso di 25 anni. Si comincia con tre fatti di cronaca raccontati nel 1990 su un settimanale ormai scomparso, «L’Événement du jeudi»: un ventunenne che tenta di uccidere la madre, una mamma che spara all’amatissimo figlio di venti mesi e fa altrettanto su di sé ma non riesce a morire, una lettera alla madre di un assassino scrutata per due giorni nell’aula del tribunale. La fine è il lungo testo su Luke Rhinehart scritto per il periodico francese «XXI» (e pubblicato anche da «Internazionale») nell’autunno scorso, storia dello psicanalista che decise di affidare le sue decisioni al dado che portava in tasca, e soprattutto storia di quanti – come Carrère – a un certo punto delle loro vite hanno provato a imitarlo.
Venticinque anni di non-fiction, di pezzi di reale che hanno come unico punto in comune lo sguardo poco, anzi per niente obiettivo di Carrère, scrittore immerso dentro la realtà fino a plasmarla. Lo teorizza, del resto: all’obiettività non crede granché, e lo sguardo soggettivo in fondo è un gesto più di modestia che di narcisismo. Ecco le cose per come io le vedo, non per come pretendo che siano davvero.
E se si rimane, ancora una volta, aggrappati alle pagine, è per la sensazione che Carrère può saltare da Philip K. Dick a Balzac, dal vertice di Davos a Calais (un nuovo reportage uscirà in aprile), ma quelli sono solo pretesti, perché la sua grandezza è descrivere l’umanità diffusa. Nessuno come Carrère è in grado di indurre immedesimazione per un nazionalista post sovietico tossicodipendente che fa sesso esibizionista nei cinema di New York e sperimenta stati di coscienza dilatata con un gruppo di amici rivoluzionari nelle steppe dell’Asia centrale.
Un esempio del perché Carrère potrebbe pure parlare di suo cugino, o di un marziano, e lo leggeremmo ugualmente, è l’articolo «Come ho completamente fallito la mia intervista a Catherine Deneuve», uscito nel 2008 su «Première».
«Lei arriva. Pantaloni e maglione blu, occhiali, capigliatura bionda e questo modo di parlare veloce, così riconoscibile, che faceva dire a Jean-Paul Rappeneau che Deneuve ha il perfetto tempo della commedia: il massimo di sillabe nel minimo di secondi, senza mai sbagliarne una. Preoccupato di essere semplice e naturale, scherzo sul tema: non capita tutti i giorni di stare davanti a Catherine Deneuve, del resto ho passato tutta la mattina a pensare a come vestirmi, qualcosa che mi stia bene ma non faccia vestito della domenica... Comincio a dire cose come “Si sente che è importante, per lei, il rigore”, e che cosa volete che possa rispondermi, poverina? “È vero, è molto importante, il rigore”. Dopo il rigore toccherà alla lucidità, all’onestà, alla coerenza, alla franchezza non priva di rudezza, tutte virtù che le attribuisco con un tono benevolo, etereo, come imbevuto di una vita interiore ineffabile (...). Sono così preso a condurre non una normale intervista ma una conversazione naturale tra due esseri umani, che non porgo una sola vera domanda e quindi non ottengo una sola, vera risposta». Disastro, ma più interessante del compitino assegnato.
Ci sono poi i nove articoli «un po’ porno» scritti per il settimanale italiano «Flair» nel 2003-2004, quando Carrère non aveva ancora raggiunto lo status di classico contemporaneo. In uno di questi pezzi Carrère difende il racconto erotico Facciamo un gioco, allegato a Le Monde del 20 luglio 2002, che ebbe conseguenze catastrofiche sulla sua vita privata.
«Perché vi racconto questa disavventura – scrive Carrère —? Perché riguarda la paura dell’impegno della quale molti uomini soffrono, della quale molte donne si lamentano e della quale io sono purtroppo un esempio caratteristico. Questa paura riposa su un timore lucido e anche saggio della realtà: la coscienza dell’impermanenza dei sentimenti, della nostra incapacità a dominarli. Ma questa lucidità, questa saggezza, sono paralizzanti: se le ascoltassimo non faremmo niente, né progetti, né bambini, né racconti erotici. Per fare qualcosa, per vivere qualcosa, bisogna accettare di non calcolare, non avere paura di soffrire e di fare soffrire». Ecco forse il segreto di Carrère: buttarsi, vincere la paura, a costo di farsi lasciare dalla fidanzata e sbagliare l’intervista a Catherine Deneuve.