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 2016  febbraio 10 Mercoledì calendario

Nella «Moschea del terrore», quella di Jihadi John

«Se due cristiani vanno in Vaticano e poi fanno qualcosa di male da un’altra parte nel mondo, la colpa è del Vaticano o di quei due?». Karim si liscia la barba e aspetta una risposta.
Siamo inginocchiati a piedi scalzi sul tappeto di Al Manaar, «la moschea del terrore» secondo la stampa inglese: in questi giorni si è scoperto che tre dei “Beatles dello Stato Islamico”, i giovani musulmani britannici andati a sgozzare ostaggi occidentali in Siria, venivano qui a pregare, come un’altra mezza dozzina di estremisti coinvolti in attentati in Medio Oriente ed Europa.
Così ora l’attenzione dei media si concentra su questa palazzina nel nord-ovest di Londra, non lontana in linea d’aria da Notting Hill, dalle case eleganti dove abitava David Cameron prima di traslocare a Downing Street e dal colorito mercatino di Portobello Road, ma distante anni luce se ci si guarda intorno. Alle spalle, i binari della ferrovia. Di fronte, file di “council houses”, gli alloggi popolari assegnati ai poveri. Un pezzo di capitale grigia, cupa, misera, in cui non s’imbattono mai i turisti.
Mohammed Emwazi, in seguito noto come “Jihadi John”, il tagliatore di gole degli ostaggi dell’Is poi polverizzato da un missile americano, e Allexanda Kotei, il “Ringo” dei cosiddetti “Beatles”, vivevano da queste parti. La recente rivelazione sull’identità di quest’ultimo accentua i sospetti su Al Manaar, il moderno Centro di culto islamico inaugurato un decennio fa dal principe Carlo. Entrarci in un piovoso pomeriggio non conferma immediatamente le congetture. Nessuno ti ferma all’ingresso. Lasci le scarpe al deposito prestabilito e ti accovacci sul tappeto senza suscitare curiosità, anche se sul volto non hai la barba del Profeta. Un gruppetto di uomini anziani in caffettano parla fitto in un angolo. Fedeli di mezza età pregano rivolti verso la Mecca. Ma non mancano i giovani. Come gli algerini Karim e Mustafà. «Baggianate», replica il primo a una domanda sull’ipotesi che la moschea sia un luogo di reclutamento di estremisti. «Menzogne sparse dai giornali dei crociati per infangare l’Islam», gli fa eco il secondo. Crociati in che senso? «Nel senso di chi vuole lanciare una crociata, una campagna, contro di noi». Karim pone il quesito sul Vaticano: di chi è la colpa, se due cristiani fanno del male? «La responsabilità è sempre individuale», si risponde da solo. «E poi in questa moschea sono tutti benvenuti», continua Mustafà, «anche i non musulmani».
Centinaia di non musulmani hanno risposto a un simile appello domenica scorsa, per la prima volta “Open Day”, giorno di porte aperte, in 90 delle 1.500 moschee del Regno Unito. Non per cercare seguaci, ma per far familiarizzare gli estranei con il mondo dei 2 milioni e mezzo di musulmani britannici, il 5% della popolazione. Per abbattere stereotipi, dimostrare che non sono tutti fanatici o terroristi. Sono fioccate domande di ogni tipo, racconta l’imam della moschea di Whitechapel, nell’East End, dall’altra parte della città. Perché vi fate crescere la barba? Perché le donne si coprono il capo? Qual è la differenza tra sciiti e sunniti? Credete anche voi nella Bibbia? Perché vi togliete le scarpe e vi lavate prima di pregare?
Tra i curiosi entrati alla Moschea Centrale, la più grande di Londra, accanto a Regent’s Park, c’erano pure David e Joel, padre e figlio, ebrei praticanti della vicina sinagoga. «In giro ci sono troppa ignoranza e tanti pregiudizi», è il commento che hanno lasciato. «Come membri di un’altra religione minoritaria in Inghilterra, comprendiamo come devono sentirsi i musulmani».