il Fatto Quotidiano, 9 febbraio 2016
Cinesi al voto, tra integrazione e mafia
Il segretario del Pd milanese, Pietro Bussolati, è un tipo spiritoso. L’altra sera ha annunciato con l’aria di Giulio Cesare al ritorno dalle Gallie il calo dell’affluenza alle primarie del centrosinistra (61mila persone in due giorni contro le 67mila del 2010 e le 82mila del 2006, quando si votava solo la domenica). Poi ha pensato bene di accomunare il Fatto a Salvini, dandoci dei razzisti perché abbiamo raccontato la lunga marcia ai gazebo dei Cinesi per Sala: “A Milano vive il 20% di cittadini stranieri, ma alle primarie erano solo il 3%. Quindi il nostro mea culpa è per non averli fatti partecipare e incoraggiati abbastanza. Ma purtroppo non c’è solo Salvini a fare polemica. Ho trovato un articolo del Fatto Quotidiano del 17 agosto, dove si dice che gli Hu hanno quasi raggiunto i Rossi”. Una notizia asettica del nostro sito (e di molti altri) sulla classifica all’Anagrafe dei cognomi più diffusi a Milano: solo un mattacchione come Bussolati poteva vederci una coloritura razzista. Ma il tiro al Fatto è il nuovo sport preferito dal Pd. L’esempio viene dall’alto: Matteo Renzi in persona, ossessionato da uno dei rari giornali che non si fanno dettare la linea dal suo ufficio stampa, ha messo alla gogna i nostri titoli alla Leopolda e i nostri articoli su Maria Etruria Boschi alla Camera. Quindi i suoi sottopancia, leccapiedi e portaborse, credendo di far cosa gradita, lo scimmiottano come possono. Anche a costo di incappare nella topica memorabile di bollare di xenofobia le polemiche sui cinesi alle primarie (anzi, plimalie).
1) Nessuno vuol negare agli “stranieri” il diritto di votare e di scegliere il candidato sindaco. Ma basta leggere le cronache di molti giornali, non solo del nostro, per capire che la questione non è questa. Scrive Repubblica, quotidiano non proprio ostile al Pd: “Il primo gruppo (di cinesi, ndr) si è presentato poco prima delle 8. Avevano solo un bigliettino in mano con su scritto il nome del candidato da votare. Cioè Beppe Sala… In viale Monza il presidente del seggio si è lamentato con i dirigenti Pd: ‘Non parlano una parola di italiano eppure vengono a votare, alcuni neanche sapevano come farlo’. Ma una volta capito come fare, avevano le idee chiare sulla preferenza… I cinesi sono sopraggiunti in gruppi di almeno una decina di persone, con moduli di preiscrizione al voto precompilati e in difficoltà a votare… Mentre il presidente di seggio si è allontanato, una persona si è avvicinata a una connazionale per ‘aiutarla’ a segnare la scheda. Al seggio di Monte Stella, tra 1/4 e 1/5 di elettori sarebbero cinesi”.
Enrico Fedrighini, portavoce dei Verdi, denuncia sempre a Repubblica: “Qui finora non avevamo mai visto nessuno di loro venire a votare. Si facevano le fotografie dentro al seggio, davvero preoccupante”. È razzista chi denuncia questo sconcio o chi recluta cinesi un tanto al chilo, usandoli come truppe cammellate per alterare le primarie facendoli votare per un candidato di cui non sanno nulla (meglio: sennò non lo voterebbero), neppure come si chiama?
2) L’on. Emanuele Fiano, ex aspirante candidato, parla di “polemiche irricevibili e disgustose” perché gli stranieri alle primarie “sono stati solo il 4%”. Quanto al disgusto, ce ne faremo una ragione: a noi viene per l’uso che si fa della comunità cinese, ma ciascuno è libero di indirizzarlo dove più gli conviene. La storia del 4%, invece, fa acqua da tutte le parti. Qui nessuno dice che Sala ha vinto grazie ai cinesi (nemmeno loro possono sbaragliare le sconfinate virtù suicide della sinistra). Qui si segnala un malcostume che già inquinò le primarie a Napoli nel 2011, quando i cinesi si mobilitarono per Cozzolino (e Bersani saggiamente annullò tutto), e quelle in Liguria nel 2015, quando marciarono compatti per la Paita (e Renzi fece finta di nulla, consegnando poi la regione a Toti). E che rimane un malcostume anche se non risulta decisivo per l’esito finale. E che aggiunge tristezza a tristezza, visto che Renzi aveva promesso un nuovo modo di fare politica.
3) Quel buontempone di Bussolati riesce persino a dire, restando serio, che “l’affluenza ai seggi di residenti di origine straniera è un successo della democrazia, non un problema. Significa che questi concittadini si sentono parte integrante della vita milanese”. Un capolavoro di integrazione. Se così fosse, i cinesi affollerebbero le sezioni del Pd durante tutto l’anno, non solo il giorno delle primarie. E domenica sera avrebbero riempito il teatro Elfo Puccini per festeggiare Sala: invece non ce n’era uno. Sarà politicamente scorretto ricordarlo, ma una cosa è certa: a Milano, prima delle primarie, non s’erano mai visti tanti cinesi tutti insieme fuori dal quartiere attorno a via Sarpi. Quindi qualcuno li ha reclutati: se in cambio di qualcosa, e di che cosa, non lo sapremo mai. Ed è altrettanto certo che Sala, più noto a Rho-Pero (anzi, Lo-Pelo) che a Chinatown, non presenta alcuna caratteristica in grado di eccitare la comunità del fu Celeste Impero (anzi, Impelo), a parte la tipica espressione penetrante del raviolo al vapore: non ha gli occhi a mandorla, non indossa il kimono né il cheongsam e, malgrado i tentativi di travestirsi da sinistrorso, è difficile scambiarlo per un maoista. Anzi la sua precedente vita all’ombra del centrodestra più xenofobo d’Europa non ne fa proprio un idolo delle comunità straniere. E allora, di grazia, perché i cinesi si son precipitati ai seggi a votare solo per lui, col biglietto in tasca per ricordarsi come si chiama e il selfie per mostrare di aver eseguito l’ordine? Questi metodi, quando si praticano al Sud con protagonisti italianissimi, non si chiamano integrazione. Si chiamano mafia.