il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2016
Asor Rosa ha nostalgia di Vittorini (sono cinquant’anni dalla morte)
La sua destinazione non è più ostinata e contraria. Oggi Alberto Asor Rosa, ex direttore di Rinascita, il settimanale del Partito comunista italiano, e molte altre cose difficili da elencare, si limita a osservare, anche e soprattutto nel tentativo di dormire, come spiega, “perché se mi dovessi indignare di fonte a ogni avvenimento non avrei lo spazio per dormire e mangiare”. Ha la scorza dura, il professore.
A cinquant’anni dalla morte di Elio Vittorini affrontiamo anche la figura di un altro intellettuale che lui non amò per niente, ma che rivaluta come avversario: “Avercene oggi come lui”, dice. La sua, quella di Asor Rosa, è la storia di un comunista, mai stato atipico, a differenza di molti altri, che hanno cambiato strada prima, durante e dopo.
No, la mancanza di coerenza non si può imputare a un personaggio della sua levatura. Duro con gli altri, anche con gli intellettuali intoccabili, come Pier Paolo Pasolini, ma senza risparmiare niente neanche a se stesso. Con lui parliamo dello strappo degli intellettuali del Pci dopo l’invasione dell’Ungheria. Con lui cerchiamo di parlare, senza accontentarci di una semplice chiacchierata.
Professore, sono passati 60 anni dai fatti d’Ungheria. Lei ha vissuto da comunista quel periodo. Un fermento che poi ripetuto, seppur in minima parte e in maniera diversa, nel ’68. Da quel momento in poi la massa ha accettato qualsiasi tipo di guerra senza porsi troppe domande. Era un percorso segnato?
C’è da chiedersi se un’opposizione di massa ci fu nel 1956. E la risposta è negativa. Fu un dissenso di una piccola élite costituita da militanti e intellettuali del Partito comunista che molti vissero come una rivelazione della dura realtà. La massa, compresa la massa degli iscritti al Pci, non ci fu. Forse l’unico momento di dissenso nei confronti di una guerra c’è stato nel 1968, contro il Vietnam che lei ha citato, negli strati giovanili della società, soprattutto, destinata in questo a saldarsi con i partiti che all’epoca facevano l’opposizione. Da quel momento in poi, tutte le guerre la massa le ha intese come incidenti di percorso.
Abbiamo guerre in corso che spuntano sui titoli di giornale come incidenti stradali. Nessun dibattito, neppure tra gruppi ristretti. Perché?
Qualcosa del genere si è manifestato contro la guerra nei Balcani, ma è stato anche quello un movimento mancato.
C’è una tendenza a rimuovere quella che è la realtà?
Su questo argomento, insieme alla sua collega Simonetta Fiori, ho scritto un libro, Il grande silenzio, difficile riassumerlo in poche parole, un esercizio impossibile. Il ragionamento è molto complesso, ma riguarda la scomparsa dalla scena di gruppi di intellettuali e spazi a loro circostante. È la mancanza di un rapporto di impegno sia politico che culturale quello che viviamo oggi, uno spazio che nega sempre di più le ragioni dell’impegno.
Lei professore ha ancora la capacità di indignarsi?
Ho la capacità di osservare. Se uno oggi dovesse indignarsi per tutto quello che non funziona non troverebbe lo spazio neanche per mangiare e dormire. Io cerco di mantenere il controllo. Meglio, l’autocontrollo. È una strada possibile.
Lei non è mai stato tenero con gli intellettuali di estrazione comunista o che comunque lo divennero. Non lo fu con Pasolini né con Vittorini: muove oggi le stesse contestazioni di allora.
Trovo una difficile comunanza tra le due figure. Parliamo di intellettuali profondamente diversi. Vittorini veniva dal fascismo, il fascismo di sinistra, per un percorso che poi arrivò ad abbracciare le ragioni della Resistenza, perseguendo quello che era tipico di quella generazione di persone maturate tra gli anni Trenta e Quaranta. Pasolini arriva successivamente e inizia una battaglia contro le deficienze e le deviazioni della sua stagione con ragioni e obiettivi diversi. Lei mi chiede se sarei disposto a muovere le contestazioni di allora e qui ci riallacciamo in qualche modo a quello che dicevamo prima: avercene Vittorini e Pasolini con i quali confrontarsi virtuosamente. Il problema è che non ci sono. Ripeto: rimango in silenzio a guardare.
Il momento di grigiore collettivo è una storia che si ripete?
La storia positiva, in realtà, è sempre stata fatta da strette minoranze, in Italia.
Ma contro il berlusconismo gli intellettuali, i cineasti, o almeno una piccola parte di loro, hanno sollevato le barricate. Oggi non lo fanno.
Non posso che non essere d’accordo. Forse sono rimasti a osservare anche loro, non so. Ci sono giuristi e intellettuali che ci provano a fare una battaglia alla loro sinistra, tutti rispettabili e capaci come Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Piero Bevilacqua, ma a differenza del passato la loro minoranza non riesce a sfondare, è costretta a un coro ridotto. E questo è il segno degli anni che poi viviamo, in attesa forse di altri accadimenti. In attesa che passi. A volte manca il coraggio.
La causa persa da Vittorini col Pci fu – tra le molte – anche la vicinanza di Togliatti alla linea di Mosca. La pagò troppo?
Tra il 1946 e il 1948 fu investito da una violenta polemica, anche perché la visione dominante era quella di una stretta osservanza da parte del Pci nei confronti di Mosca e di quella linea politico culturale. Vittorini la pagò troppo, non c’è dubbio. Fu messo in un angolo dal quale era difficile per chiunque riuscire a saltarne fuori, ma alla fine lui ci riuscì. Diresse la rivista il Menabò insieme a un giovane Italo Calvino. Non uscì di scena, nonostante tutto.
Cosa scrisse Togliatti su Rinascita?
Credo che il titolo – “Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciati” – dica molto. È rimasto nella storia di quello che fu il Partito comunista e allora venne vissuto come uno schiaffo violento. Fu una vera e propria scomunica quella nei confronti di Vittorini. Ma la mia critica a lui ha radici diverse e non in quella scelta, riguardava il suo passato giovanilistico. In quell’occasione fu coraggioso e ripeto, riuscì a uscirne. Ripensarci oggi, avercene di scomuniche così. Non c’è niente da scomunicare.