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 2016  febbraio 08 Lunedì calendario

Alessandra Monasta, l’ascoltatrice di professione che riconosce una bugia da un respiro

È la donna che ascolta. Ore e ore di conversazioni, chiacchiere, balbettii, fruscii, risate, scatti d’ira. Tutto conta per le orecchie di Alessandra Monasta, che dentro e oltre la voce trova qualcosa di più: la menzogna e, attraverso la menzogna, la verità. Nata a Firenze nel 1969, di mestiere è  «perito fonico forense». Ha seguito casi come il mostro di Firenze, l’attentato di via dei Georgofili, la strage di Erba. Inchieste sulla mafia e sul traffico di droga. Lo racconta nel suo libro, La cacciatrice di bugie, pubblicato da Longanesi: «Però è un romanzo», precisa. Insomma non è da prendere proprio alla lettera, ma svela un mondo dentro il mondo delle indagini e dei processi.
Che cos’è un perito fonico forense?
«È la persona che si occupa di ascoltare e trascrivere le intercettazioni telefoniche e ambientali, e di identificare una serie di informazioni richieste dai magistrati».
Per esempio?
«Riconoscere chi parla e, a seconda del reato, individuare le conversazioni utili per avere una idea del mondo completo della persona».
Che altro deve fare?
«Lavorare sui riconoscimenti vocali in sala di registrazione, se necessario con gli interpreti, e a volte anche all’elaborazione di video. E poi descrivere le scene, coi rumori di fondo, l’ambiente, le pause: è come la sceneggiatura di un film, devi scrivere tutto».
Come ha iniziato?
«Me l’hanno proposto. Non esiste una scuola di formazione, anche se ci stiamo organizzando per farla. Io avevo appena iniziato giurisprudenza e lavoravo per un magistrato come baby sitter. È stato lui a dirmi: hai le caratteristiche giuste per questo lavoro».
Quali?
«Una buona cultura di base, perché hai a che fare con molti mondi, il narcotraffico, la mafia, la finanza, la medicina e non devi mai interpretare: devi fare delle trascrizioni che, abbinate all’audio, siano comprensibili a tutti».
E se c’è qualcosa di non chiaro?
«Annoti incomprensibile, oppure aggiungi un presumibilmente. Per esempio, le espressioni dialettali vanno rispettate. Poi è utile una conoscenza fonica, servono competenze informatiche perché hai a che fare con microfoni, tastiere, onde sonore e, infine, un orecchio musicale. Perché la voce è l’impronta musicale della persona».
Le hanno sempre detto che è molto empatica. Che significa?
«Be’, lei si sente a suo agio a parlare con me, no? Ecco, uno si sente così, coinvolto. Da piccola però ero tremenda, mettevo in schiera tutti i cugini e facevo la maestra. Il fatto è che loro erano felici...».
Però in aula ha avuto anche incontri poco gradevoli, come quello con Totò Riina.
«La formazione nel nostro lavoro avviene con la trascrizione delle udienze: così l’orecchio si abitua a più voci, tutte insieme. Le prime che ho seguito furono il mostro di Firenze e le stragi, quasi in contemporanea, nell’aula bunker».
È lì che ha visto Riina?
«Avevo venticinque anni, entrai in aula e mi salutò col mio nome: La signorina Alessandra si è degnata di farci visita disse, sarcastico. Anche chiusi nella gabbia ti facevano sentire che erano forti, potenti».
Non si spaventò?
«Successe anche ad altre persone. Certo vederlo dal vivo fu un choc. Poi ho partecipato a molte udienze, ascolti di intercettazioni e di interrogatori per le indagini sulle stragi».
Era presente agli interrogatori?
«Non fisicamente, per ragioni di sicurezza. L’ambiente dei tribunali è abbastanza maschilista, per certi versi in senso negativo ma, per altri, anche buono».
In che senso?
«Per esempio negli interrogatori in carcere, per alcuni reati, il dialogo fra uomini si basa su dinamiche diverse. E ora lo capisco, è meglio che una donna non intervenga».
E come si è trovata in un ambiente di quasi soli maschi?
«Innanzitutto devi fare accettare la tua testa prima del tuo corpo. Poi devi comprendere il loro mondo, mantenendo la tua identità femminile: secondo me alterarsi è un errore, io ho cercato di rimanere sempre me stessa».
In un passo del libro dice, a proposito di un indagato, che era un poliziotto: «Lo conosco meglio di quanto conosca se stesso».  Perché?
«Per quella indagine avevo ascoltato 18.785 registrazioni. E consideri che, prima di trascrivere una conversazione, la ascolto almeno dieci volte. Ti cali nel mondo di un altro, nelle sue abitudini, i suoi modi di parlare, le persone che frequenta, tutto quello che manifesta il suo stato d’animo. Alla fine mi faccio un quadro completo del suo mondo».
Troppo, forse?
«Spesso però ho trovato chi è innocente. Le intercettazioni servono anche in positivo. Perciò sono diventata anche un counselor, un professionista della relazione: perché entrando nella vita degli altri conosci tutto di loro, le fragilità, i rapporti, i legami affettivi che hanno».
Solo ascoltando?
«Non siamo abituati ad ascoltarci, ma quando ci succede qualcosa cambia tutto: la voce, il ritmo, la musicalità. La voce è lo strumento attraverso il quale escono le emozioni, si trasmette quello che abbiamo dentro».
Che cosa capisce dalla voce?
«Lo stato d’animo, l’intenzione con cui una persona sta dicendo una cosa. Anche quando non voglio, come con gli uomini».
E come fa?
«È una tragedia. Sento la menzogna dal respiro, prendono fiato e capisco il loro stato d’animo».
E loro?
«Scappano».
Ma come capisce che una persona mente?
«Se la conosco, a pelle. Professionalmente, se devo segnalare una alterazione ascolto il ritmo, il timbro, la velocità, la musicalità che cambia, mettendo a nudo un disagio».
In pratica avverte il disagio attraverso la voce?
«Esatto. Soprattutto per gli uomini. Le donne sono emozionalmente più semplici, più spontanee».
Sta dicendo che è più semplice capire se una donna mente?
«Sì, altroché, molto più facile».
Quanto conta la fiducia nel suo lavoro?
«Non sono mai sicura, nel senso che non dò mai una interpretazione mia: cerco elementi chiari per chiunque ascolti. Però intorno a me sento molta fiducia, da parte di magistrati e poliziotti; spesso gli avvocati stessi si fidano del mio lavoro e non chiedono un consulente di parte. Del resto possono verificare tutto nella relazione tecnica».
Un caso delicato è stato quello di Erba.
«Sono subentrata in appello. Furono messe in discussione le prove, fra cui che fosse udibile quello che aveva detto il testimone. Ecco, io dovevo rendere udibile a tutti quello che aveva detto. È stato un lavoro lungo, in sala di registrazione, al computer, tutto basato sui riconoscimenti vocali».
Che cosa prova quando vede la persona in aula, dopo averla ascoltata per tanto tempo?
«È come incontrare qualcuno che conosco già, però allo stesso tempo c’è la curiosità di vederla, di sapere se è come l’avevo immaginata e che effetto le farò. C’è come un legame, un filo trasparente che ci collega, anche se a volte mi sento un po’ un’intrusa».
Il problema della privacy.
«È un problema che mi pongo. Cerco di essere discreta, di rispettarla. Per esempio non trascrivo le conversazioni private, se non sono utili all’indagine. E per quanto riguarda le pubblicazioni delle intercettazioni penso che ci vorrebbe più cautela».
Qual è il confine?
«Lo scopo sarebbe raccontare i dettagli del reato. La persona non è il reato che commette, invece spesso si calca la mano sulla parte personale, anziché su quella del reato».
Quante voci ha ascoltato?
«Non lo so. Tante. Per tantissime ore. Del resto l’orecchio deve abituarsi, ogni volta, a certe voci, a certi suoni. Bisogna ascoltare per ore e ore, ogni giorno».
La tecnica è importante?
«Molto. E va sempre aggiornata. L’obiettivo per me è l’ascolto profondo, che va al di là di quello che viene detto, per capire come viene detto».
Il suo primo capo le aveva detto qualcosa di diverso...
«Sì, mi disse: Devi solo scrivere, non pensare. Ma per me come dici una cosa conta di più di quello che dici. Mi sono arrabbiata così tanto, allora, che mi sono detta: sarò un perito diverso».