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 2016  febbraio 08 Lunedì calendario

Montano, ancora tu?

Due rughe scendono a precipizio sulla faccia da eterno ragazzo, due sciabolate della vita, due segni, ma solo quelli. Il resto è l’Aldo Montano di sempre. Come quella notte, ad Atene, quando la dinastia familiare si ritrovò fuori dal palasport Helliniko per celebrare l’apparizione dell’ultimo dei Montano. Appena consacrato campione olimpico, tre mesi dopo essersi rovinato una gamba giocando di nascosto a calcetto, e un attimo prima di diventare pop star. Il sorriso, la parlata, quel rovesciare sempre le prospettive. Quando te lo aspetti pronto per il cantiere navale di famiglia lo trovi con la neve fino alle ginocchia ad allenarsi in Russia, quando sembra a pezzi fisicamente vince due prove di Coppa del mondo consecutive, e si qualifica per Rio. Ed anche ora che ha trentasette anni, è temuto su tutte le pedane della sciabola. Nonostante gli orecchini di brillanti, la sigaretta, la giacca di pelle, i reality a cui continuano ad associarlo, le donne splendide che ha sempre avuto accanto. La sua vita romana, goduta con un appartamento a piazza Cavour appena comprato, tra gente che lo chiama per nome e chiede un selfie. «Mi sembra che si sia fermato il tempo, ho qualche ruga in più ma mi sento bene, ho più voglia di pedana di quando ero giovane, scapestrato. Ho letto la lettera di addio di Kobe Bryant, ma io questa sensazione di aver finito la benzina non ce l’ho. Sono un atleta ormai fatto, più tranquillo, consapevole. Oddio, le gare continuo a viverle a modo mio. La tensione si trasforma in crampi, oggi come allora, ad Atene nel 2004 sono finito due ore sotto la coperta termica e crampi dappertutto, a Padova pochi giorni fa mi sono fatto sei bustine di Polase per resistere. E per fortuna c’era una pausa di due ore tra un assalto e l’altro, altrimenti mai avrei vinto. Già, perché ho vinto, proprio io, mentre il mio allenatore Sirovich mi chiedeva di ritirarmi dopo i quarti di finale, dopo la qualificazione alle Olimpiadi. E sapete come ho vinto? Con tre legamenti della spalla rotti, e un dolore fortissimo che saliva dalla coscia al, si può dire?, culo. La guardia accorciata, le gambe bloccate, mi sono rimasti solo i piedi, e sulla pedana mi sono mosso come un ballerino. Diventare vecchio significa arrivare tre ore prima della gara. Ma non perché sei zelante: devi fasciare il piede, poi la spalla, fare gli allungamenti per le vertebre. È come se in pedana con me salissero preparatori, fisioterapisti, medici, oltre alla polizia penitenziaria che mi sostiene».
Una sigaretta accesa, e via. «Sono nato in una famiglia in cui mi hanno raccontato la storia attraverso le Olimpiadi. ‘Sai, Aldino, tuo nonno Aldo ha preso l’argento alle Olimpiadi di Berlino, quando in Germania c’era il nazismo. Avrebbe vinto l’oro a Tokyo 1940, ma i Giochi furono annullati per la guerra. Tornò a Londra nel ’48, ormai anziano, e gli italiani li guardavano male nel villaggio olimpico. I tuoi zii “Mariolone”, Tommaso e Carlo, che tra loro sono cugini, hanno vinto medaglie a Montreal nel ’76, quando ci fu il primo boicottaggio dell’Africa». Da quando ero piccolo so che posso morire per una distrazione, una superficialità. Per un grissino al pecorino, lasciato nel cestino del pane di un ristorante che magari era al corrente del mio problema, l’allergia al formaggio fermentato. Se qualcosa va storto, ho solo mezz’ora a disposizione per arrivare in ospedale. Una lotta contro il tempo, a shock anafilattico in corso. Adrenalina, cortisone, ossigeno, e sono salvo. Viaggio con un kit di sopravvivenza, con le siringhe contro la Kriptonite di Superman».
Un’altra pausa, due ragazze chiedono un selfie nel tranquillo viavai di Borgo Pio. «Vivo con un piede a terra e l’altro pronto a partire. Mi sono trasferito in Cina per seguire il mio maestro Bauer, per poi scoprire che potevo vincere due mondiali col romano Sirovich. Per preparare Pechino ho chiesto aiuto ad un rivale di mio padre, Viktor Sidjak, ex militare sovietico che mi disse di andare a Mosca, «penso a tutto io». Ma quale Mosca? Un paesino nel nulla, in pieno inverno. Viktor mi svegliava all’alba, uscivo a correre con tre maglioni a trenta sotto zero. Ma sentivo che stavo facendo qualcosa di giusto. Misi a segno io la stoccata della medaglia di bronzo, così come ho fatto perdere io il mondiale a squadre del 2009, e volevo essere seppellito in una buca per un anno».