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 2016  febbraio 08 Lunedì calendario

Sui politici che diventano diplomatici o ambasciatori

In questi giorni si sente ripetere che la nomina di un politico per un incarico generalmente affidato a diplomatici di carriera è cosa rara. Non vorrei sbagliarmi ma mi sembra che subito dopo la guerra Saragat fosse ambasciatore a Parigi. Vi sono altre eccezioni?
Cesare Scotti

Caro Scotti,
Saragat fu ambasciatore a Parigi soltanto per un anno, dal 1945 al 1946. Aveva trascorso in Francia una parte dell’esilio, aveva stretto amicizie negli ambienti del socialismo francese e sembrò la persona adatta a rappresentare l’Italia democratica in un grande Stato europeo dove il Partito socialista avrebbe certamente partecipato alla gestione del potere. Rientrò in Italia quando fu chiamato a presiedere l’Assemblea Costituente, ma la stessa formula, nel frattempo, venne adottata per altri Paesi con cui l’Italia, dopo la fine del conflitto, stava aprendo o riaprendo le proprie rappresentanze diplomatiche. Quasi tutti i funzionari della carriera avevano lavorato per il regime fascista e la prudenza suggeriva di lasciare in disparte, almeno per il momento, quelli che potevano apparire maggiormente compromessi.
I nuovi furono scelti con due criteri. Occorreva rispettare gli equilibri del Cln (Comitato di liberazione nazionale) scegliendo persone che rappresentassero complessivamente tutta la gamma della democrazia italiana. E occorreva scegliere persone che assomigliassero per quanto possibile, sotto il profilo politico e personale, al Paese in cui avrebbero rappresentato l’Italia. Fu così che a Londra, dove il governo era laburista, fu mandato Nicolò Carandini, esponente dell’ala progressista del Partito liberale; a Washington Alberto Tarchiani, redattore capo del Corriere della Sera nell’ultima fase della direzione di Luigi Albertini, poi esule negli Stati Uniti fino alla Seconda guerra mondiale; a Berna Egidio Reale, un esponente del Partito repubblicano che aveva vissuto in Svizzera durante gli anni dell’esilio; a Varsavia un comunista, Eugenio Reale; a Madrid un cattolico liberale, Tommaso Gallarati Scotti, che aveva una ascendenza spagnola e poteva fregiarsi del titolo di Grande di Spagna. In Cina, dove era in corso una guerra civile fra nazionalisti e comunisti, fu inviato un azionista, Sergio Fenoaltea, che era stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio con De Gasperi; a Buenos Aires un liberale piemontese, Giustino Arpesani, a Belgrado un democristiano ligure, Enrico Martino.
L’eccezione fu Mosca dove nel 1944, dopo la ripresa delle relazioni tra l’Italia e l’Urss arrivò avventurosamente dall’Afghanistan un funzionario della carriera, Pietro Quaroni. Ma aveva alcune virtù di cui anche i sovietici dovettero tenere conto. Parlava russo (lo aveva imparato quando era primo segretario dell’ambasciata d’Italia a Mosca negli anni Venti) ed era diventato ambasciatore a Kabul quando, agli occhi di Mussolini, si era reso colpevole di una eccessiva spregiudicatezza nel corso di una conversazione con un diplomatico britannico.