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 2016  febbraio 08 Lunedì calendario

Il referendum è il trionfo del potere popolare, ma solo se il quesito è chiaro e univoco. Altrimenti si rischia di fare una caricatura della democrazia

Il festival della democrazia rischia di celebrarne i funerali. Succederà in ottobre, quando verremo convocati per esprimere un sì o un no alla riforma della Costituzione. Che grande invenzione, il voto: rende effettiva la sovranità del popolo, ci permette di scegliere i governi e i programmi di governo. Purché il voto sia libero, non sotto dettatura. Che grande invenzione, il referendum: rafforza il potere popolare, giacché consente ai governati di revocare le decisioni dei loro governanti. Purché il quesito sia chiaro, univoco, puntuale. Altrimenti il voto diventa un plebiscito, una caricatura della democrazia.
Ecco, il problemone che si staglia all’orizzonte è tutto in questi termini. Dopo di che, coraggio: ogni problema ha la sua soluzione. Ma per trovarla bisogna cercarla, bisogna accorgersi che c’è un nodo da recidere. Quanto ne sanno gli italiani della scelta cui verranno sottoposti? Secondo un sondaggio Ipsos eseguito per il Corriere (30 gennaio), soltanto il 7% è informato sui contenuti della riforma Boschi. Molti sono al corrente, viceversa, degli effetti politici che s’accompagneranno al referendum: la sopravvivenza del governo, anzi della legislatura, anzi di Renzi, che ha annunziato di chiudere lì la sua avventura, se la riforma fosse respinta dall’elettorato. Effetti dirompenti, conseguenze capitali; ma non così importanti come il futuro della democrazia italiana, come il nuovo assetto delle nostre istituzioni.

P erché è di questo che si tratta: la revisione costituzionale che il Parlamento sta per licenziare tocca l’elezione e i poteri del Senato, dà una sforbiciata alle competenze regionali, abroga il Cnel e cancella le Province, investe i decreti del governo insieme alle leggi popolari, corregge il quorum per eleggere il capo dello Stato, confeziona nuove tipologie di referendum. E in ultimo affida a un referendum il suo stesso battesimo. Sennonché questo genere di consultazioni non ammette vie di mezzo: tutto o niente, prendere o lasciare. E se ti piace la riforma del federalismo ma non anche quella del bicameralismo? Dovrai sorbirti i dispiaceri per gustare i tuoi piaceri. Dunque il prossimo referendum sequestra la libertà degli elettori, ne violenta le scelte. La prova? Qualora il voto cadesse su uno dei tanti referendum abrogativi che dal divorzio in poi sono stati sottoposti agli italiani, la Consulta accenderebbe il rosso del semaforo: fin dalla sentenza n. 16 del 1978, quest’ultima ha infatti stabilito che il quesito dev’essere omogeneo, senza sommare cavoli e carciofi.
Da qui la conclusione: il procedimento di revisione costituzionale fu congegnato per interventi singoli, mirati. Non per riforme che ambiscano a creare di nuovo l’universo. Come disse Luigi Einaudi in Assemblea costituente: una riforma per volta, altrimenti gli elettori non si renderanno conto su cosa debbano votare. Quindi l’unità di misura coincide con un Titolo della Costituzione, perché ogni Titolo sviluppa un unico argomento. Tuttavia quest’esigenza venne rispettata nel 2001 (con la riforma del Titolo V); non nel 2005 dal governo Berlusconi (55 articoli riscritti), non nel 2016 dal governo Renzi (40 articoli). Col risultato d’imprimere un carattere plebiscitario al referendum, per la genericità del suo quesito.
La soluzione? Una leggina che permetta di spacchettare il referendum, intervenendo sulla disciplina regolata dalla legge n. 352 del 1970. Che del resto è stata già emendata cinque volte (nel 1975, nel 1995, nel 1999, nel 2000, nel 2001). E che anche adesso contempla la possibilità di svolgere più referendum costituzionali nella stessa giornata (articolo 20). Ma chi dovrebbe incaricarsi di suddividere il quesito? L’Ufficio centrale presso la Cassazione, che nel referendum abrogativo dispone già d’un analogo potere: accorpa i quesiti omogenei, li trasferisce sulla nuova legge se la vecchia sia stata modificata nel frattempo. Insomma, basterebbe una riga d’inchiostro; e al nostro legislatore non manca di certo il calamaio.