Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 08 Lunedì calendario

Costruire ponti e abbattere muri per fermare la terza guerra mondiale. Così venerdì, per la prima volta nella storia, un Papa incontrerà il patriarca di Mosca. Un segno di pace

«Sono felicissimo». Quando si chiede a Francesco di commentare la riconciliazione tra Chiesa cattolica e ortodossa dopo quasi mille anni di scisma, la risposta è affidata a un superlativo che esprime soprattutto gioia. D’altronde, la strategia con la quale il Papa ha guidato e seguito le trattative è stata altrettanto disarmante, nella sua semplicità. «Io ho lasciato fare. Ho solo detto che volevo incontrare e riabbracciare i miei fratelli ortodossi. Tutto qui. Sono stati due anni di trattative di nascosto, ben condotte da vescovi bravi. Per gli ortodossi se n’è occupato Hilarion, che oltre a essere bravo è anche un artista, un musicista. Hanno fatto tutto loro». Alla vigilia del faccia a faccia storico che avverrà il 12 febbraio a Cuba con il Patriarca russo Kirill, nella quiete pomeridiana di Casa Santa Marta, in un incontro all’insegna dell’informalità, Jorge Mario Bergoglio appare soddisfatto, soprattutto perché ritiene di avere costruito un altro ponte. 
Da mesi si intuiva che l’ultima pietra stava per essere posata. Alla fine di giugno scorso, sul Corriere della Sera, proprio il teologo Hilarion, «ministro degli Esteri» del Patriarcato di Mosca, aveva detto che quell’incontro storico «era in agenda». Aveva parlato di «prospettiva vicina». E espresso la speranza che «non si incontrino un futuro Papa e un futuro Patriarca, ma questi due». A fine anno le voci si erano infittite. Si parlava di un’insistenza del Patriarcato ad accelerare la tappa finale, condivisa peraltro dalla Santa Sede. Si è cominciato a ipotizzare uno «scalo tecnico» a Cuba per la visita papale in Messico. Il 23 gennaio scorso il cardinale tedesco Kurt Koch, che in Vaticano presiede il consiglio per l’unità dei cristiani, aveva detto che «il semaforo non è più rosso ma giallo». E il comandante della Gendarmeria vaticana, Domenico Giani, reduce da un sopralluogo in Messico, a Ciudad Juarez, la città di immigrazione al confine con gli Stati Uniti, dove il Papa celebrerà la Messa e che era nella sua traiettoria mentale fin dall’inizio, ha aggiunto che un «cambio di itinerario» a sorpresa non era da escludersi. 
Il «semaforo» è diventato verde nello spazio di neanche due settimane. Di colpo, un ponte crollato da mille anni si è materializzato, pronto per essere attraversato. Una riconciliazione del cristianesimo europeo, ma fuori dai confini europei: quasi a testimoniare che il baricentro della Chiesa oggi è altrove. A quanti lo incontrano a Casa Santa Marta, il Papa lo ripete con una miscela di speranza e di lucida preoccupazione. «Ponti: quelli bisogna costruire. Passo dopo passo, fino ad arrivare a stringere la mano a chi sta dall’altra parte. I ponti durano, e aiutano la pace. I muri no: quelli sembrano difenderci, e invece separano soltanto. Per questo vanno abbattuti, non costruiti. Tanto sono destinati a cadere, uno dopo l’altro. Pensiamo a quello di Berlino. Sembrava eterno, e invece: puff, in un giorno è caduto giù». Il «ponte» ricostruito con l’ortodossia è frutto di questa paziente strategia del dialogo; di rispetto per interlocutori che il Papa valuta soprattutto come persone. 
Francesco sa bene che «la Russia ha sangue imperiale», dai tempi della zarina Caterina. E, come la Cina, anche «la Russia può dare molto». In questa fase, ripete il Papa alle persone che gli sono vicine, «non possiamo dire di essere circondati da un mondo in pace. Dovunque ci voltiamo ci sono conflitti. Io ho parlato di terza guerra mondiale a pezzi. In realtà non è a pezzi: è proprio una guerra. Le guerre come si fanno? Agendo sull’economia, col traffico delle armi, e facendo la guerra contro la nostra casa comune, che è la natura. I trafficanti stanno facendo molti soldi, comprando armi da un Paese che gliele dà per colpirne un altro, suo nemico. E si sa quali sono». Per lui, la questione ecologica è un pezzo fondamentale di quella che si può definire sicurezza globale. «Tagliare gli alberi significa desertificare interi territori. Per questo, in Paesi come lo Zambia hanno cominciato a ripiantarli, a riforestare le zone per evitare l’impoverimento della terra. E bisogna stare attenti alle monoculture. Se si producono sempre le stesse cose, senza alternare le coltivazioni, presto il terreno diventa morto». 
«L’Occidente deve fare autocritica sulle primavere arabe» 
Non perdere nessuna occasione per costruire ponti e evitare qualunque tipo di guerra è un punto fermo, per il Pontefice. L’intervento militare dell’Occidente in Nord Africa e le cosiddette «primavere arabe» sono stati un azzardo che ora si paga a caro prezzo. «Sulle primavere arabe e l’Iraq si poteva immaginare prima quello che poteva succedere. E in parte c’è stata una convergenza di analisi tra la Santa Sede e la Russia. In parte, è bene che non esageriamo perché la Russia ha i suoi interessi». Ma il Papa invita sempre a pensare «alla Libia prima e dopo l’intervento militare: prima di Gheddafi ce n’era uno solo, ora ce ne sono cinquanta. L’Occidente deve fare autocritica». Non si può non pensare con una punta di apprensione a quanto può accadere se Usa e Europa riterranno di dovere attaccare di nuovo il territorio libico, lacerato tra tribalismo e terrorismo islamico. Sa bene che quanto accade al di là del Mare Mediterraneo è una tragedia. 
«L’Europa alla fine sorriderà ai migranti» 
Agli interlocutori che gli parlano delle migrazioni epocali in atto e dell’allarme che suscitano in Europa, Bergoglio replica ricordando il suo primo viaggio del luglio 2013 nell’isola siciliana di Lampedusa, luogo-simbolo della tragedia dei profughi. Allora gettò una corona di fiori in mare: un omaggio a tutte le persone morte annegate attraversando il Mediterraneo su barconi e gommoni sovraffollati. «Quando andai a Lampedusa, il problema dell’immigrazione era appena agli inizi. E adesso è esploso», ripete sempre, come a dire che la vista lunga della Chiesa non è stata compresa in tempo; e l’Europa si trova a gestire un problema aggravato dalla mancanza di visione e di strategia. È «una sfida da affrontare con intelligenza, naturalmente, perché dietro c’è il problema enorme e terribile del terrorismo». Lo sguardo del Papa verso il Vecchio Continente, tuttavia, non è pessimista. Raccontano che stia preparando il discorso che pronuncerà in occasione del Premio Carlo Magno per la pace e l’integrazione, conferitogli dalla giuria di Aquisgrana, in Germania. E sarà «un discorso di grande affetto». 
Colpì molto quanto disse nella fugace visita al Parlamento di Strasburgo, nel novembre del 2014: un’occasione nella quale le sue parole accorate, in alcuni passaggi perfino dure sull’Europa, crearono un’eco immensa. In quell’occasione disse che «un’Europa che sia in grado di fare tesoro delle proprie radici religiose, sapendone cogliere la ricchezza e le potenzialità» potrà essere anche «più facilmente immune dai tanti estremismi che dilagano nel mondo odierno, anche per il grande vuoto ideale a cui assistiamo nel cosiddetto Occidente». Il «cosiddetto» Occidente: già l’aggettivo scelto era significativo. Ma andò oltre. Rivolto agli europarlamentari, non esitò a evocare «un’Europa nonna e non più fertile e vivace. Per cui i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici delle sue istituzioni». Poche ore dopo il Papa ricevette una telefonata. «Mi chiamò la cancelliera tedesca Angela Merkel», ama raccontare Francesco. «Era un po’ arrabbiata perché avevo paragonato l’Europa a una donna sterile, incapace di fare figli. Mi chiese se davvero pensavo che l’Europa non poteva fare più figli. Io le risposi che sì, l’Europa ne può fare ancora, e tanti, perché ha radici solide e profonde. Perché ha una storia unica. Perché ha avuto e può avere ancora un ruolo fondamentale: pensiamo solo alla cultura e alle tradizioni che incarna. E perché nei momenti più bui ha sempre dimostrato di avere risorse non sospette». 
Ma negli incontri a Casa Santa Marta insiste con i suoi interlocutori che «l’Europa deve e può cambiare. Deve e può riformarsi. Se non è in grado di aiutare economicamente i Paesi da cui provengono i profughi, deve porsi il problema di come affrontare questa grande sfida che è in primo luogo umanitaria, ma non solo. Si è rotto un sistema educativo: quello che trasmetteva i valori dai nonni ai nipoti, dai genitori ai figli. Ebbene, occorre porsi il problema di come ricostruirlo». Spesso, Bergoglio usa una metafora biblica. Paragona il Vecchio Continente a Sara, la moglie di Abramo. Sara è sterile e quando ormai ha più di settant’anni, secondo gli usi di quei tempi remoti dà in moglie la sua schiava al marito perché partorisca per lei un figlio. Poi, però, miracolosamente, riesce ad averne uno a novant’anni. «L’Europa», ama ripetere Francesco, «è come Sara, che prima si spaventa ma poi sorride di nascosto». La sua speranza, riferisce chi gli ha parlato, è che l’Europa «sorrida di nascosto» agli immigrati. 
La forza le può venire dalla memoria dei «grandi personaggi dimenticati» della sua storia recente. Francesco è un ammiratore dei protagonisti della rinascita europea dopo la Seconda guerra mondiale. Cita il cancelliere tedesco Konrad Adenauer, il ministro degli Esteri della Francia, Robert Schuman, l’italiano Alcide De Gasperi. Ma intravede «grandi dimenticati» anche nella cronaca dei nostri giorni. «Ad esempio la donna-sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini», per il modo in cui si è spesa a favore dei profughi. Ed è solito citare «tra i grandi dell’Italia di oggi» sia il capo dello Stato emerito, Giorgio Napolitano, che l’ex ministro Emma Bonino. «Quando Napolitano ha accettato per la seconda volta, a quell’età, e sebbene per un periodo limitato, di assumersi un incarico di quel peso, l’ho chiamato e gli ho detto che era un gesto di “eroicità” patriottica». Quanto alla Bonino, a interlocutori che strabuzzano gli occhi sentendo citare l’esponente radicale, sostiene che «è la persona che conosce meglio l’Africa. E ha offerto il miglior servizio all’Italia per conoscere l’Africa. Mi dicono: è gente che la pensa in modo molto diverso da noi. Vero, ma pazienza. Bisogna guardare alle persone, a quello che fanno». 

Un messaggio al presidente
cinese Xi Jinping?
I n fondo, la sua idea del poliedro come figura geometrica che meglio rispecchia la frammentazione di questa fase storica, e l’esigenza di trovare un punto di equilibrio, di unità e convivenza tra disuguali, nascono da questo approccio inclusivo: lo stesso che gli sta permettendo di rimuovere i detriti lasciati dalla Guerra fredda, e di tentare di contribuire alla costruzione di un nuovo ordine mondiale. La mediazione tra Usa e Cuba. Il viaggio negli Stati Uniti. L’apertura del Giubileo in Africa. Adesso il Messico e la riconciliazione con il mondo ortodosso. Sono tutte tappe di una «strategia dei ponti» alla quale questo Papa argentino e australe, espressione di un «Occidente alternativo», non mette limiti: neanche quelli dell’Impero di Mezzo cinese. La sua intervista a Asia News sulla Cina ha fatto il giro del mondo. E si parla di un messaggio rivolto nelle prossime ore allo stesso presidente della Repubblica popolare, Xi Jinping: un’altra pietra posata sul ponte col quale Francesco spera di attraversare, prima o poi, anche la Grande Muraglia.