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 2015  dicembre 01 Martedì calendario

Alzare gli occhi al cielo e vedere nero. Succede a New Delhi, a Pechino e in Indonesia

La vita, la malattia, la morte, le siccità, le alluvioni possono essere ridotte a una questione di statistiche, di dati. Nella battaglia di retroguardia contro l’inquinamento da CO2 Xi Jinping, presidente della Cina che è alimentata ancora per il 60% a carbone ed è responsabile di circa il 30% delle emissioni globali (Stati Uniti secondi con il 16%), si è presentato a Parigi come il possibile salvatore, con la promessa di fermare l’ascesa dell’inquinamento dopo il picco previsto nel 2030. 
A Pechino Xi ha lasciato un cielo tra il bianco-schiuma e il grigio-cenere. La megalopoli è avvolta dal Pm 2,5. Sono le particelle di pulviscolo misurate in microgrammi per metro cubo d’aria, si infilano nei polmoni, nel sangue e non ne escono più. Secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità fino a 25 particelle in media per 24 ore di esposizione (significa respirare) va bene. 
Ma a Pechino da giorni siamo stabilmente sopra 300. Lo sappiamo grazie al rilevatore nel parco dell’ambasciata Usa, che informa via Twitter e ieri ha segnalato 450 al mattino, poi 542, 560, 568 e nel pomeriggio, a 608, ha alzato bandiera bianca: «Dato oltre il limite dell’indice». 
Le autorità ammettono che le malattie cardiache e polmonari causate da questa Airpocalypse uccidono prematuramente 200 mila cinesi ogni anno. Ora uno studio del Berkeley Earth americano dice che i morti sono 1,6 milioni all’anno: 4 mila al giorno. Così, quando il salvatore Xi tornerà dalla missione all’estero, tra una settimana, 28 mila cinesi saranno all’obitorio. Il centro Berkeley sostiene che nella Pechino a quota 400 di Pm 2,5 ogni ora si inala l’equivalente di 1,5 sigarette e si perdono 20 minuti di aspettativa di vita. 
Ieri, io che non fumo sigarette, ho consumato un paio di pacchetti respirando e ho anche bruciato 480 minuti di esistenza. Sono uscito con la maschera, come molti. La municipalità ha emesso l’allarme arancione: stop alle fabbriche più inquinanti, ai cantieri che sprigionano polvere, ai camion pesanti. Ne parlo tranquillamente perché mi illudo che le statistiche riguardino solo gli altri. Come la gente di New Delhi, che ieri era a 372 di Pm 2,5. O come gli indonesiani, alle prese con la stagione degli incendi usati per preparare il terreno dalle industrie della palma. 
La coltivazione della palma da olio ha fruttato all’Indonesia 18,5 miliardi di dollari nel 2014. Ed è costata 9 miliardi di dollari ai sistemi sanitari dei Paesi della regione per le malattie respiratorie provocate dai roghi. Sono statistiche alquanto disumane.