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 2015  novembre 30 Lunedì calendario

«Io sono stato un Gufo». I primi 80 anni di Lino Patruno

Per capire quanto i Gufi siano una cosa da maneggiare con cura, bisogna entrare nella casa museo di Lino Patruno, zona Cortina d’Ampezzo, Roma d’alto bordo: dischi e film che spuntano dagli armadi, il piano a coda, la chitarra, il contrabbasso, la foto con Nanni Svampa, con Ugo Tognazzi, Mina, Dario Fo, con Gino Paoli e Luigi Tenco e con tutti quelli che hanno fatto la storia del jazz. La leggenda vuole che quando la Rai non trovi qualcosa dalle teche si rivolga a lui. E Lino, che per noi che lo abbiamo ascoltato in un lungo e largo, visto in tv e al cinema, resta un piccolo grande uomo di quella che un tempo si chiamava contro cultura e che oggi sta chiusa nelle case di pochi intimi, pochissimi, perché il tempo si è portato via tutto come una mareggiata, tutto quello che quella generazione ci ha raccontato e nessuno ha coltivato come si fa con un fiore, con un amore, con un amico. Festeggia ottanta anni il maestro Lino. E per quelli che ancora si chiedono, all’ennesima riga, cosa c’entrino i Gufi, era con Nanni Svampa quello che i Gufi li fondò. E Matteo Renzi, le ministre e quel ragazzo che gli fa da portavoce non c’entrano nulla. Furono semplicemente il primo gruppo a fare cabaret. Ma lo facevano in maniera seria, perché lui, Svampa, Roberto Brivio e Gianni Magni erano musicisti molto seri, impegnati. Erano già attori. Poi accade che a Castiglioncello, una sera del 1964, nacquero come gruppo. E da lì ai sei anni a venire fecero una storia che dura ancora oggi.
Eravate a Milano. Giusto?
Sì, ora le racconto gli scherzi che a volte combina il destino. Ma io d’origine sono calabrese, mio babbo era impiegato alla Montecatini, sono cresciuto a Roma, poi ci trasferimmo a Milano e, alla fine, nel 1990, colpa di Pupi Avati, sono tornato a Roma. La mia città resta quella lassù, avvolta dalle nebbie. È la gioventù, gli anni scanzonati.
Come vi saltò in testa il gruppo strampalato che chiamaste Gufi?
Colpa, o merito, di una donna. Come sempre nella mia vita. Avevamo una relazione, non la sentivo da un mese, mi chiama in piena notte a casa e mi dà appuntamento con altri amici in un ristorante. Ci rimettemmo insieme. E quella sera mi presentò Nanni, inteso come Svampa. Milano per certi ambienti era città microscopica, così ci ritrovammo a suonare e cantare insieme, al Capitan Kidd dove il Cabaret iniziò i suoi primi passi. Iniziò la nostra storia. Arrivò Magni, che era un bravo attore, e avemmo l’idea di far mimare le nostre canzoni.
Dopo il Capitan Kidd, il Derby, altro locale storico di Milano.
Gli anni più belli. Eravamo noi e Enzo Jannacci, che all’epoca era anche il mio medico. Un ragazzo strano, stralunato, ma con un cuore così. Questa era la programmazione del Derby. Cochi e Renato c’erano già, ma lì per ascoltare. C’era tutto quel gruppo di scanzonati che hanno fatto strada, Massimo Boldi, Teo Teocoli. Una sera capitò Adriano Celentano e se ne andò indispettito dopo dieci minuti: i Gufi non potevano piacere a Celentano. E viceversa.
C’è un incontro tra i milioni di incontri di Lino Patruno?
Sempre Milano. Nel dopo serata io passavo da un locale e mi mettevo a suonare il contrabbasso. A quel tempo suonavo a ciclo continuato. Suonavo per lavoro e andavo a suonare per scaricarmi dal lavoro. In un locale nella zona di Brera, il bar dell’ultima staffa. Il cameriere mi dice che c’è un signore che mi voleva al suo tavolo. Era Arturo Bendetti Michelangeli. Mi disse che ero bravo e staccò un assegno di duecento mila lire. Per me. Lo rifiutai e lui lo strappò. Lo ritrovai tempo dopo a una festa a Verona, cantava i cori con gli alpini. Il più grande pianista del XX secolo. Poi si scoprì l’arcano, quegli amici facevano parte del celebre coro della SAT e Benedetti Michelangeli era uno dei suoi arrangiatori.
Proviamo a fare un gioco e lei ci racconta quello che sa.
Va bene.
Vittorio Gassman.
Eravamo alla Bussola, da Sergio Bernardini. Si presenta Vittorio e Bernardini lo trascina sul palco. Gassman apre così: “Tutto sommato siete dei simpatici stronzi”, rivolto al pubblico. Non la presero bene. Arrivarono i vigili, carabinieri, guardie da tutta Viareggio per scortarlo. Il giorno dopo gli chiesi il perché. E lui: volevo capire fino a che punto posso spingermi.
Mina.
Aprivamo i suoi concerti alla Bussola, una delle donne più belle che abbia mai incontrato.
Enzo Jannacci.
Un matto che era anche il mio medico.
Dario Fo.
Gli dobbiamo molto, mai riuscito a ricambiare quello che lui ci dava. I suoi pezzi, quello che scriveva per noi e nessuno sapeva. Era il nostro motore intellettuale.
Romano Mussolini.
Ci salvò dalle legnate dei fascisti, a Roma. Eravamo a teatro
Federico Fellini.
Io recito in Amarcord. Una volta arriviamo a Roma e ci mettiamo a fare il nostro spettacolo di cabaret per lui. Lui ci ascoltò e alla fine disse: sapete già tutto, non ho niente da insegnarvi. Una cosa però ve la dico: esagerate sul palco, esagerate coi trucchi, nei movimenti, d’altronde anche il teatro è un momento di grande circo.
Maurizio Micheli.
Il mio migliore amico. Lui e Benedicta Boccoli sono i miei migliori amici.
Gino Paoli.
Un poeta. Senza Fine è la più bella canzone mai scritta.
Luigi Tenco.
Un amico. Non credo e non ho mai creduto al suicidio. Lui stava con Dalida che aveva lasciato uno dei boss dei marsigliesi per mettersi con lui. Queste cose nell’ambiente della malavita si pagano. Passavamo ore nel mio ufficio alla Ricordi. E parlavamo di musica e di donne.
Sergio Endrigo.
Il migliore.
Silvio Berlusconi.
L’ho conosciuto una sera a casa di Bettino Craxi. Era già proprietario delle tv, venne con un suo portaborse che oggi è lui a farsi portare le borse da altri. Berlusconi mi chiese di fare un programma dedicato al jazz e mi disse di prendere accordi con questo segretario. Ma il segretario svanì nel nulla. Non mi chieda il nome, non sarebbe signorile.
Sergio Zavoli.
Dirigente di una tv d’altri tempi. Da lui ho ricevuto il più bel complimento della mia vita: “La sua musica è la colonna sonora della mia vita”. Può bastare.
Enzo Tortora.
Mi sentì e mi volle a Portobello. Che dire, gli devo molto. Ma non eravamo amici prima di quell’incontro, gli piacevo e basta. Professionista serio.
Pupi Avati.
Mi portò a Roma per collaborare alla sceneggiatura di Bix. Non me ne sono più andato. È colpa sua. Amavo Milano, la amo ancora, anche se non è più la mia città, ma come la Maga Circe attrasse Ulisse Roma lo ha fatto con me..
Perché oggi non ci sono Gufi in giro?
È pieno, chiedete a Renzi. Scherzo, ovviamente. È la tv che ha distrutto il cabaret. Poi il mondo è diventato suscettibile, sessismo, omofobia, dissacrazioni. Non è più possibile niente. Noi finimmo a processo per blasfemia, ma era un episodio isolato. E ci assolsero. Oggi ci salterebbero tutti addosso. Giocavamo, facevamo ironia. E non c’è più spazio per l’ironia. Io mi arrangio col violino di Joe Venuti e la mia raccolta kjazz, coi film in bianco e nero, qualche bella donna. Ma la tv non l’accendo.