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 2015  novembre 30 Lunedì calendario

A due anni dal rapimento Domenico Quirico torna in Siria

Basse colline di gialla roccia bruciata, che pesantemente si appiattano, macchiate qua e là di punti scuri, i punti scuri dei pini e degli arbusti. Una fenditura attraversa quella estensione di siccità dove corre la strada, una fenditura appena di chiara roccia rossastra, piuttosto torrente che strada. E sopra tutto l’azzurro, aspro cielo alcalino del levante.
«Ecco! Sei in Siria» mi annuncia l’amico Talal che ha lavorato, duramente, per riportarmi qui, dopo due anni: due anni dopo la Siria da prigioniero, quella degli islamisti-banditi, un transito di dannazione. Torno nell’altra Siria, capovolta, quella che non ho mai visitato prima: perché il tempo mi restituisca i suoi giorni e le sue notti terribili, che mi lasci ancora viva la sua preda, il passato. Senza dimenticare il presente. Ho la follia di chiedere a Dio di uccidere il tempo.
Soldati, eroi e Brad Pitt
In alto, sulle colline, piccoli villaggi di case nuove tutte eguali dipinti di colori vivaci già appassiti dal sole, accoccolati alla rinfusa, pronti a dissolversi, polvere che torna alla polvere come le mille civiltà che questa terra nasconde.
Ma la Siria è già iniziata prima, a Beirut, a Bashoura, uno dei quartieri nido di Hezbollah, il partito-esercito sciita che si batte accanto a Bashar Al Assad. Mi fermo a un caffè aspettando l’ora dell’appuntamento. Alla parete, vicino al televisore che trasmette un film di spionaggio con Brad Pitt, ritratti, fotografie: tante. Giovani in uniforme, lo sguardo baldanzoso di chi vuole agguantare la vita, o riflessivo di chi forse ha già capito, mi interrogano: sono i morti del quartiere, i caduti di Hezbollah sul fronte siriano. Centinaia ormai da quando due anni fa il Partito di dio è accorso per impedire che Bashar, indispensabile alleato, crollasse sotto i colpi dei suoi nemici, interni ed esterni.
Anche Beirut è Siria. La sua tragedia si è allargata qui. Nel prolungamento violento della città, disarmonico, la ricostruzione di Hariri, senza quiete e senza misura, che non ha anima né presente né remota, spolpata, quando scende il buio e si chiudono le banche e le boutique, percorsa da reticolati e pattuglie di gendarmi in attesa dell’attentato. Per cercare il mio uomo devo andare nei vecchi quartieri sopravvissuti, palazzi gialli e grigi, donne vestite di nero e moschee, vecchie muraglie tappezzate da finestroni dai vetri sporchi, grigi, lungo le strade come castelli sfasciati.
«Questo l’abbiamo ucciso»
L’uomo che era venuto a cercarmi in Siria si chiama Abou Hassan, comandava la sicurezza di Hezbollah nella zona del Kalamoun, dove mi sapevano prigioniero. Lo incontro in una stanza che dà sulla strada, sembra un negozio qualunque in una casa decrepita. Una scrivania, divani decrepiti, il kalashnikov appoggiato al muro, bandiere di Hezbollah e ritratti di Alì il santo. La televisione mostra i bombardamenti dei russi su, a Nord: meteore di guerra con colori stupendi, purpuree turchine, il fronte vicino a Latakia: una festa terribile si celebra lassù. Una parete intera è coperta di altri schermi: le telecamere con cui controlla tutto il quartiere. Parla con assoluta freddezza, come se le parole gli uscissero di bocca come ghiaccio: «Avevo dato l’ordine di cercarti, ma quando siamo arrivati là, dove ti avevano sequestrato, nella città riconquistata, i prigionieri ci hanno detto che ti avevano già portato via...».
Poi mi mostra sul telefonino delle facce di uomini. Scorrono, sono i miei carcerieri: «Questo lo abbiamo ucciso...».
Eliminare intorno molte cose, bisogna lentamente lasciar rivivere e riapparire e schiarirsi quello che è rimasto, e ciò che è nato di nuovo. Il panorama può restare terribile per una serie di mali di adesso, relativi, sopportabili. Non è facile avere un vento costante che tenga il cielo sereno, soprattutto dopo una gran tempesta. Non è facile arrivare a dire: qualunque cosa accada, ormai sono in salvo.
Jalal guida svelto lungo i tornanti che scendono alla Bekaa e poi al confine (sui cartelloni ritratti di modelle mezze nude che propagandano calze e santi sciiti). Le acque di questi torrenti del Libano hanno dissetato tutti gli eserciti venuti dal Nord. Montagne così diverse queste dalle nostre, con gli strati netti e regolari: qui vi sono candidi profili di paesaggio lunare, filoni basaltici simili a torri diroccate di città morte da mille secoli. Jalal è siriano, ha mandato la figlia e il padre in Germania, lungo la rotta balcanica: stanno bene, la bimba studia il tedesco.
Al posto di frontiera di quando in quando, in mezzo a un silenzio sbigottito, si ode il lento boato del cannone che si perde nelle spelonche dei monti come un gemito profondo. «Viene da Zabatani – mi dicono – oltre la montagna, città assediata dall’esercito e da Hezbollah e tenuta dai fondamentalisti». La guerra protende il suo lungo collo mostruoso fino a qui. Non si sazia mai la sua ira assurda. Uomini grossi parlano in continuazione al telefonino, offrono passaggi, cambio di denaro favorevole, cose. Una immensa Chevrolet bianca scarica un ragazzo e una ragazza che tenendosi per mano vanno all’ufficio dei visti, tra gli omaggi dei poliziotti libanesi.
Tonfi nella memoria
Il posto di frontiera siriano, dove un tempo c’erano file innumerevoli, è deserto. Una giovane donna velata culla, nel silenzio, il suo bimbo come se si preparasse ad attese infinite. Nel comando delle guardie, lustre divise nere aquile d’oro sulle spalline, quando digitano il mio nome sul computer, compare, sinistramente lampeggiante, una scritta rossa. Gli sguardi dei soldati si fanno di colpo scuri, ostili. Un tonfo sanguigno della memoria, come quando un gesto, un oggetto sommerso nelle alghe del passato, riappare nella sua verità di forme e paura. Lunghe telefonate, poi, provvisorio, cade il tampone liberatore sul passaporto.
Tra la frontiera e Damasco ci sono appena 45 chilometri. Ad ogni lampione hanno appeso, per chilometri, lo stesso manifesto colorato, gigantesco, un bambino che fa correre nel cielo un aquilone con i colori della bandiera siriana. Poi cominciano i ritratti di Assad. Innumerevoli: in divisa, in borghese, in nero grisaglia, giacche tinte pastello, solo, con il padre, con il fratello, che saluta o ha le braccia incrociate o indica la via o rassicura. I suoi occhi non ti lasciano mai, si ficcano addosso non appena esci in strada, piccoli o cubitali, disegnati, incisi laccati fosforescenti. Adesso capisco perché dall’altra parte, due anni fa, c’era l’ossessione di calpestarli, gettarli in strada, sforacchiarli di proiettili questi ritratti.
C’è una costante volontà di riaffermare: siamo qui e non ce ne andremo. Penso alla diplomazia occidentale che disegna arzigogolati scenari: Bashar che accetta di non ricandidarsi, va in esilio volontario, che si fa da parte, compie come diciamo noi «un passo indietro». Come se qui equivalesse a lasciar una poltrona o un incarico... Quel volto, quel nome è un mondo un sistema una storia di mezzo secolo.
Damasco e la tragedia
Dall’ultima collina ecco Damasco, la città più antica del mondo, già vecchia quando Abramo vi passò per andare a liberare Lot. Sembra di guardare giù una carta orografica, un modello finto. Damasco è un lago immenso, bianco, di abitazioni e stabilimenti, laborioso e malinconico. Giro, giro per Damasco, ormai più radi i posti di blocco, meno che a Beirut forse, il traffico tranquillo, i vigili che danno la caccia alle infrazioni: giro dietro al bisogno accanito di scoperta e di coscienza della città, non più di me. Sto dentro a Damasco come dentro all’incarnazione di cemento della tragedia siriana. Damasco città santa, città limite, estrema, senza equilibrio e senza pausa, senza alcuna antitesi esplicita al contatto tra pace e guerra.
In un caffè, un locale moderno, semplice, ben illuminato, un gruppo di giovani donne si fa servire fette di torta. Non riesco a dimenticare che non c’è niente di crudele, folle, spaventoso che non abbiano visto, è forse questo che le rende così stranamente tranquille.
Il silenzio del mondo
«Due anni, i primi, sono stati terribili, le autobombe, i razzi che cadevano, i bambini avevano imparato a riconoscere le bombe, le nostre e le loro. Ora è molto meglio almeno qui. Siamo sicuri di noi stessi, non possiamo cambiare, dobbiamo conservare le abitudini, quello che siamo. Ci ha salvati la speranza di salvare quello che abbiamo creato. Prima sentivamo il silenzio del mondo l’isolamento, ora il mondo ci ascolta... È bene».
L’abitudine di resistere
Eppure anche qui: il rumore del cannone, attutito ma regolare, arriva da Duma, una città satellite in mano a un capo jihadista, siriano figlio di un famoso predicatore radicale che vive in Arabia Saudita, l’Esercito dell’Islam, il braccio saudita in questa guerra di fanatici. Comincio a capire la strana natura di Damasco, la guerra a un chilometro dalla normalità, il lavoro il caffè... Hanno passato così cinque anni: sai che passeranno settimane mesi ma basta resistere, aspettare. Ecco che si è costruiti una normalità nel bel mezzo di quel luogo diventato estraneo. Alle abitudini ci si abbandona come al piacere.
Sento l’eco di ciò che ho provato anche io: essere immobile ad aspettare un annuncio di liberazione, del cibo, qualcosa, qualcuno. Aspettare, vedere; destino. Questa società conserva dentro di sé quel momento iniziale che si rinnova e ricomincia ogni giorno, il suo seme anche quando è diventato una complicatissima pianta. Fissare quel seme per non perdersi. «Alle sventure forse si deve la propria scoperta mi dice una ragazza – se non fossi stata rinchiusa in tutto questo non mi sarei trovata con la mia coscienza, non mi sarei incontrata né conosciuta».
Alla televisione Al Ekbaria, «le notizie», hanno preparato un albero di Natale. Accanto alle palline colorate, piccole icone con i volti dei loro giornalisti morti in questi anni. C’è anche l’ovale di una bella ragazza bruna. Il direttore Imaf Sara racconta: quando è arrivata la notizia che era morta uccisa da un cecchino non sapevo che fare, come dirlo ai genitori. Lei non era un soldato, le avevo dato il consenso per la prima linea perché lo voleva a tutti i costi, minacciava di licenziarsi. Il padre è venuto, siamo scoppiati a piangere… mi aspettavo che mi maledisse. È rimasto in silenzio».
I fronti e le bandiere non importano, si scopre di nuovo la grandiosità del coraggio umano di fronte al dolore, si impara sempre il significato dell’umiltà.
Sopravvissuti al naufragio
La sera nel quartier di Baab Touma, la porta di San Tommaso. Al ristorante Naranj, uno dei più famosi di Damasco, di fronte al patriarcato tavoli di coppie giovani, eleganti. La borghesia che è rimasta, che non è fuggita verso l’Europa. Lungo quella che era il «cardo» della città romana, luci pallide, poche auto, solo voci e fruscii scopro il rumore della Damasco di oggi: il riso di una ragazza, un soldato che bacia, stringendola forte, la sua ragazza, un piccolo caffè fitto di adolescenti che discutono e lavorano sui loro telefonini, e sopra l’ingresso un grande poster di un soldato caduto. Sdraiati sui monconi delle colonne romane altri soldati spaccano una cassetta per riscaldare il turno di guardia di notte, ti sfilano accanto i fruscii delle biciclette.
In un negozietto il venditore di vini con gioia mi mostra le sue bottiglie, la data di quest’anno, vengono dal Golan druso, Sweda la marca, ha quasi le lacrime agli occhi, perché la terra scura ha fatto il suo dovere nonostante la guerra. Dal quartiere di Jobar, inizia appena in fondo alla strada, dopo la porta dell’Est, arriva lenta l’eco di colpi di mortaio. I sopravvissuti di un naufragio.
La paura, l’amore del vivere respingono ai margini dove l’ideologia è un fuoco fatuo, uno sdegno o un ricordo. Domani andrò a vedere l’altra Damasco, che combatte e muore.