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 2015  novembre 30 Lunedì calendario

Gli ottant’anni di Woody Allen, che non trova un ruolo per sé neanche nei suoi film: «Se non sono quello che bacia Emma Stone, meglio non esserci»

Saperla lunga e saperla raccontare. Woody Allen e la sua ironia compiono ottant’anni. Il regista, in camicia a scacchi, ci accoglie con un accenno d’abbraccio. Sembra più giovane di dieci anni fa. Dice cose terribili e buffe. Non ha la minima intenzione di festeggiare l’evento, il primo dicembre. Continua, inarrestabile a concentrarsi sul lavoro. Il 16 dicembre consegna alle sale Irrational man e sta già montando il prossimo film.
In “Irrational man” il filosofo Joaquin Phoenix progetta un crimine per vendicare i torti subiti da una sconosciuta.
«Una mattina, seduto in un ristorante di Manhattan, ho ascoltato la conversazione al tavolo dietro il mio. Una donna in fase di separazione raccontava di un giudice che aveva parteggiato per il marito togliendole perfino la casa. Era piena di dolore e senso di impotenza. Tre mesi dopo ci ho ripensato e ho iniziato a scrivere il film».
Ascolta spesso le conversazioni altrui?
«Sempre. Vieni a scoprire spaccati di vita straordinari e terribili. Tradimenti, bugie. A volte qualcuno si accorge che mi sto impicciando...fa cenno al compagno, e si zittiscono. Altri invece nella foga continuano. Le vite degli altri mi appassionano».
E non le viene in mente di intervenire in aiuto delle persone di cui ascolta i drammi?
«No. Sinceramente ho già tanti problemi miei a cui pensare».
In questo film e nel suo cinema ci sono tanti filosofi...
«La mia prima moglie, Arlene Rosen, studiava Filosofia all’università. Ne parlava in continuazione e riempiva la casa di tomi. Ne ho letti a centinaia. La maggior parte erano noiosi e noiosamente scritti. Tranne gli esistenzialisti francesi. Li adoravo: passionali, scenografici. Non si limitavano a scrivere libri, mettevano su spettacoli, performance. Si battevano contro il nazismo. Erano provocatori, eroici, pronti all’azione. Sì, loro mi piacevano davvero. Avrebbero conquistato qualsiasi donna. Il mio idolo era Jean-Paul Sartre».
Le sue storie comprendono spesso il delitto, a volte il castigo. Come convive con i suoi peccati e con i suoi errori?
«Non guardo mai al passato, lo seppellisco. Vale anche per il cinema. Il set è un momento di condivisione, incontro donne meravigliose come Cate Blanchett e Emma Stone. A film finito, archivio tutto. Nell’appartamento a Manhattan non ci sono foto mie con Scarlett Johansson o Diane Keaton, nessun ricordo. Guardo avanti».
Per lei il cinema è una delle distrazioni dalla tragedia dell’esistenza. Quali sono le altre?
«Fremo come un adolescente alle partite di baseball, quando suono il clarinetto. Sto bene quando rido delle battute di mia moglie, nei momenti condivisi con le bambine».
Da domani lei sarà uno splendido ottantenne.
«Mi sento ancora pieno di energia, creatività. Poi ci sono quei momenti in cui mi sveglio alle tre di notte e resto con gli occhi sbarrati a guardare il soffitto. Non ci sono più distrazioni, alibi. Realizzo la tragedia della vita».
E cosa fa?
«Di solito mi alzo e mi esercito con i giochi di prestigio. Funziona fin da quando ero ragazzino».
Cosa la fa ridere?
«Il cinema dei fratelli Marx, Charlie Chaplin. Buster Keaton invece non mi ha fatto ridere mai».
Il momento più felice nella vita?
«Un momento lungo quanto?»
Diciamo il più lungo.
«Beh, direi appena mi sono sposato con la mia seconda moglie, Louise Lasser. I primi due mesi sono stati romantici. Felicità assoluta».
E da ragazzino?
«Quando attraversavo il ponte di Brooklyn ed ero finalmente a Manhattan. Correvo e chiudermi in un cinema a guardare film, a sorprendermi e commuovermi. Vagavo da una sala all’altra».
Oggi continua a sfornare film.
«Nel prossimo ci sono Blake Lively e Jesse Eisenberg, con cui ho lavorato a From Rome to love: che belli quei mesi di set, ricostruire la mia Roma immaginaria, guardare dentro le finestre delle case degli italiani. Il nuovo film l’ho girato tra New York e la California, ambientato in un cabaret: musica, balli, fumo, bevute. Negli anni Trenta».
Quelli della sua giovinezza.
«Sì. Un ritorno nel tempo dell’America che amo, all’epoca dei locali e della bella musica, dell’eleganza. Un fermento irripetibile».
Di quella che oggi cosa pensa? È l’ora di un presidente donna?
«Per me poteva esserci anche cent’anni fa, come un presidente nero o un ebreo. È un aspetto della società americana che non mi appartiene. Io appoggio fortemente Hillary Clinton, è la persona giusta e ha tutte le capacità. E ho sostenuto Obama, una persona perbene con alti ideali, boicottata selvaggiamente».
Sono i tempi di “House of cards”. Lei detto di sentirsi in difficoltà per la serie televisiva che deve realizzare per Amazon. Perché?
«Ho iniziato facendo la tv, scrivevo testi per i comici, per Mel Brooks. Mi sono divertito, ma era un mondo diverso. La tv di oggi non mi appartiene. Quando faccio un film costruisco un crescendo e un climax. Non so come dividere la storia per far finire ogni puntata lasciandoti la voglia di vedere la successiva».
Ha già scelto la storia?
«Ce ne sono due. Una commedia romantica e un dramma complicato. Quando arrivo a un punto morto con un’idea, mi butto sull’altra. Per ora ondeggio».
È bello vederla recitare...
«Non trovo ruoli per me. Se nel film non sono quello che bacia Emma Stone, meglio non esserci. Ma nel progetto della serie drammatica c’è un ruolo per me. Un marito incastrato in un rapporto difficile, che si trova in una situazione tremenda».
Perché ha tanta paura della tv?
«Ha presente le serie televisive di oggi? Sono forti. Quelli di Amazon da me si aspettano chissà quale originalità. La serie sul transessuale ha riempito le pagine dei giornali, scatenato il dibattito. Io racconto di semplici vicende umane. Ogni giorno mi pento di avere accettato. E ora, quando mi sveglio alle tre di notte, agli altri pensieri s’aggiunge quello della figuraccia cosmica, quando la serie sarà trasmessa...».