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 2015  novembre 29 Domenica calendario

Poletti parla dell’orario di lavoro, della manovra e della decontribuzione

«Se cambia il modo di lavorare può cambiare anche il modo di definire la retribuzione: mi sembra una cosa ovvia, non credo di aver detto cose da extraterrestre». Il giorno dopo le sue dichiarazioni sullo sganciamento della retribuzione dal solo orario di lavoro, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti (nella foto) non fa passi indietro. Susanna Camusso lo accusa di voler fare Ufo Robot, lui respinge le «distorsioni e le banalizzazioni» di «chi non vuol discutere» e spiega: «Non ero in una sede istituzionale, parlavo a un convegno di economisti. La cosa va contestualizzata, ma ribadisco che su questo punto una riflessione va fatta per una semplice ragione: bisogna fare i conti con la realtà».  Susanna Camusso dice che lei si sente Ufo Robot, la Uil la accusa di liberismo più o meno selvaggio… 
Non accetto né distorsioni né banalizzazioni. Io ho parlato della necessità di pensare a un contratto che non abbia il riferimento orario come unico parametro. Ripeto: come unico parametro. Fare questa considerazione non può esser tradotto nella volontà di abolire ogni riferimento all’orario o di rottamare il contratto nazionale. C’è chi ha parlato di un ministro che vuole il ritorno al cottimo... Assurdo. Bisognerebbe sempre stare alla sostanza delle cose. Se non si vuol discutere ok, ma non mi si possono attribuire valutazioni che non mi appartengono.
La rapidità con cui cambia il modo in cui si lavora e si produce è sotto gli occhi di tutti. C’è un ritardo nel modo in cui il sindacato approccia questo cambiamento? 
Non voglio polemizzare con nessuno. La questione è che in Italia la relazione tra lavoro e impresa si è fondata storicamente sul binomio conflitto-contratto. Ma di fronte al cambiamento del lavoro, che incorpora sempre di più elementi di responsabilità, creatività e partecipazione attiva, bisogna fare evolvere quel binomio nella direzione di logiche più collaborative e partecipative. È un punto su cui tutti devono riflettere.
È in questo contesto che si inserisce la sua idea di una retribuzione non più solo legata all’orario e al luogo di lavoro. In primo piano, pare di capire, ci sono i risultati, gli obiettivi che il lavoratore deve raggiungere. 
È così. Dobbiamo ragionare di un lavoro organizzato più per obiettivi che per orario. Questo consente una maggiore flessibilità e più coerenza tra tempi di vita e di lavoro. Possiamo dare priorità e riconoscimento alle esigenze delle persone. Non stiamo parlando di sottrarre, non bisogna avere una visione negativa, vogliamo liberare più risorse, vogliamo agevolare una organizzazione più efficace della vita dell’impresa e dei lavoratori. Non meno diritti, ma più responsabilità condivisa.
Quando si parla di lavoro si fa spesso una generalizzazione ormai fuori tempo. Esistono forme di lavoro molto differenziate, lavori più che lavoro, è difficile irrigidire i modelli contrattuali e fare di tutt’erba un fascio. 
Non sono scomparsi lavori che richiedono modelli organizzativi fondati su orari e luoghi di lavoro rigidi. Ma queste situazioni si vanno riducendo. L’organizzazione delle fabbriche è cambiata. In molte realtà le catene di montaggio sono state sostituite dalle isole, dove il lavoratore contribuisce a un obiettivo e non è legato alla ripetizione meccanica di un gesto. Recentemente ho visitato la Ducati. Lì, all’interno delle varie isole, ognuno ha un kit, ciascuno è responsabile del proprio lavoro, conta il risultato. I lavori storici stanno cambiandoEppoi ci sono i lavori figli delle nuove tecnologie. Questi sono ancor meno vincolati all’orario e alla presenza in un determinato luogo. Lavoro a distanza, lavoro agile. Queste situazioni devono trovare modalità per definire la remunerazione più complesse rispetto a quelle legate semplicemente all’orario e alla qualifica. 
Lei invoca una riflessione su questi punti, ma il Governo è pronto a intervenire con un provvedimento di legge? 
Non esiste nessuna relazione automatica tra queste riflessioni e la discussione sulla riforma degli assetti contrattuali. Ribadisco che su questo il Governo ritiene importante che le parti sviluppino il loro confronto e che possano arrivare a un accordo. Se questo accordo non arriverà si valuterà cosa fare.
C’è una scadenza per voi? L’inizio del prossimo anno? 
Abbiamo sempre detto che i tempi non sono infiniti, ma non abbiamo definito un tempo. Sollecitiamo un accordo in tempi ragionevoli.
A suo avviso, questo accordo in che direzione dovrebbe andare? 
Crediamo che non si possa prescindere da un ruolo importante del contratto nazionale, ma bisogna trovare modalità nuove che promuovano e premino la produttività. Questo obiettivo è ragionevolmente realizzabile rafforzando la contrattazione aziendale, la contrattazione vicina all’azienda. Ma ripeto questa è materia del confronto tra le parti. Non voglio fare entrate a gamba tesa.
E la delega prevista dal Jobs Act sul salario minimo? 
Non è stata ancora praticata proprio per questa ragione. Lo ribadisco: non vogliamo fare entrate a gamba tesa. E il fatto che, pur potendo agire su questo tema in base a una delega, non lo abbiamo fatto, conferma che da parte del Governo non c’è alcuna volontà di interferire nel confronto tra le parti introducendo elementi di problematicità.
Nella legge di stabilità, intanto, si fanno dei piccoli passi nella direzione della produttività e della contrattazione aziendale. Non si poteva fare di più? 
Ritengo molto positivi la detassazione con ritenuta secca al 10% per il salario di produttività e l’intervento sul welfare aziendale, sono misure che confermano la volontà del governo di andare in questa direzione. 
Ma la detassazione ha un limite salariale di soli 2.000 euro… 
Vediamo cosa deciderà il Parlamento. Ma è un limite che già può essere alzato a 2.500 per quella che si può definire produttività partecipata, che non è partecipazione agli utili ma è partecipazione organizzativa. C’è un metodo attraverso il quale i lavoratori e l’impresa convengono su come ottenere incrementi di produttività e come e quanto premiarli. Questa è una parte di retribuzione non legata alle ore ma alla produttività.
Sulla decontribuzione per il Sud ci sarà l’estensione a tre anni? 
La discussione è aperta. Per il Mezzogiorno stiamo lavorando soprattutto a un’azione di consolidamento e velocizzazione degli investimenti. Questa è la cosa più importante. Lo faremo attraverso accordi con regioni e città, nel segno di una responsabilità condivisa. 
Il combinato del Jobs Act e della decontribuzione sta producendo un aumento dei contratti a tempo indeterminato. Non teme che man mano che si uscirà dalla decontribuzione possa esserci un contraccolpo negativo? 
Penso di no. Gli andamenti delle assunzioni saranno in funzione delle dinamiche dell’economia. Spingiamo perché attraverso i super-ammortamenti ci sia uno sviluppo degli investimenti privati oltre che di quelli pubblici. Se le imprese hanno assunto delle persone è perché ne hanno bisogno. Se l’economia tiene e si sviluppa questo bisogno di personale terrà e aumenterà. Nessuna impresa che ha formato per tre anni un giovane ha interesse a licenziarlo.
Ma il vantaggio economico ad assumere a tempo indeterminato, con la fine della decontribuzione, verrà meno... 
Non del tutto. Il contratto a tempo indeterminato costerà strutturalmente meno delle altre tipologie contrattuali. Già ora abbiamo eliminato dall’Irap il costo del lavoro stabile, in più il tempo indeterminato ha un differenziale di costo dell’1,4%, per un totale di vantaggio del 6 per cento. Poi a conclusione del triennio si valuterà un ulteriore incremento di questa differenza di costo. 
Ministro si pensa quindi a un nuovo intervento? 
Vediamo, l’orientamento è quello, per noi la stabilità dovrà essere sempre più conveniente rispetto ai contratti precari.
Ma si interverrà sulla parte contributiva o fiscale? 
È presto per dirlo.
Non c’è il rischio che la nuova agenzia per le politiche attive si riveli un nuovo carrozzone burocratico sul fronte pubblico? 
No. Ci sarà una collaborazione con le Regioni e con le agenzie private. Ci saranno le convenzioni con le regioni per far si che ogni regione possa da una parte stare nel quadro nazionale delle politiche attive ma dall’altra valorizzare le rispettive esperienze positive fatte, anche in collaborazione con i privati. 
Sulle pensioni si tornerà a intervenire? 
Quello che abbiamo valutato si potesse fare è nella legge di stabilità. Io, in particolare, credo molto nel part-time per gli ultimi tre anni di vita lavorativa. Dobbiamo valorizzare i modelli organizzativi che consentano lavoro più flessibile nella parte finale del proprio lavoro.
Sulla proposta Boeri non ha nascosto il suo scetticismo. 
È una sua idea. Nessun problema. Ma credo sia chiaro che l’Inps ha la funzione di gestire il sistema previdenziale, mentre la responsabilità delle decisioni è del Parlamento e del Governo. Le cose sono molto chiare.
Con la legge di stabilità sarà l’ultima volta che si interviene a tutela dei cosiddetti esodati? 
Siamo arrivati vicini alla conclusione di questa situazione. Dobbiamo sapere che ci sono casi che non andrebbero inserite nella tipologia degli esodati, sono gruppi di lavoratori che con la legge Fornero si sono visti modificare in modo forte la loro condizione e quindi vorrebbero superare quella riforma e tornare a condizioni precedenti. Ma questo non è possibile farlo attraverso la logica dei veri esodati. Qui c’è un problema diverso. 
Quando avremo dati sull’occupazione chiari, trasparenti e soprattutto univoci? 
Nei prossimi giorni annunceremo un accordo che è già pronto tra Inps, Inail, ministero del Lavoro e Istat. Ci sarà così finalmente un coordinamento strutturato nelle modalità di presentazione delle informazioni.