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 2015  novembre 29 Domenica calendario

La storia di Degas che, divenuto semicieco, si fece scultore

Ai parigini che cento anni fa passavano per Montmartre accadeva spesso di incrociare un vecchio un po’ curvo, capelli arruffati e gran barba bianca sotto un cilindro nero, avvolto in un ampio mantello, che camminava e camminava battendo la canna sul bordo del marciapiede. Quel vecchio era Edgar Degas, il grande artista, cantore delle ballerine. Aveva anche coniato un motto: Ambulare, deinde laborare. Come ricordò lo storico Daniel Halévy, «si sfiniva a camminare, portando il lutto della pittura finita per sempre».
Per Degas la pittura era finita intorno al volgere del secolo, per il progressivo peggiorare della malattia oculistica che lo stava conducendo alla semicecità. Una tragedia per chiunque, tanto più per chi aveva nella vista l’organo indispensabile della propria arte. Ma non per questo si era rassegnato. Dalla pittura si era volto alla scultura di modellato, facendo delle sue dita tanti occhi prensili capaci di «vedere» le forme nella cera e nell’argilla. Di questa fase estrema è una testimonianza vivida la memoria uscita sul Mercure de France in due puntate nel febbraio del 1919, poco più di un anno dopo la morte dell’artista, avvenuta il 26 settembre 1917. Si intitolava Degas e la sua modella e la firmava una non meglio nota Alice Michel, forse uno pseudonimo, probabilmente la modella stessa che si appoggiava a un ghostwriter. Quel testo è ora tradotto per la prima volta in italiano per le edizioni Medusa (pp. 101, € 14,50), con l’aggiunta di uno scritto della nipote dell’artista, Jeanne Fevre.
Bizzoso e spilorcio
Il racconto si snoda in terza persona e alla ragazza è dato il nome di Pauline. È il dicembre del 1910, Degas ha 76 anni, è un vecchio bizzoso, stizzoso, che vive rintanato nella penombra in un edificio di tre piani tutto suo al 37 di rue Victor-Massé, nei pressi di place Pigalle. Con lui la fedele governante Zoé, afflitta dalle manie dell’artista che le impedisce di pulire l’atelier, dove infatti si accumula una polvere di anni, e messa in croce dalla sua spilorceria: non solo le lesina gli spiccioli, mentre non bada a spese per contornarsi di quadri e stampe (in casa tiene opere del Greco, di Goya, Daumier, Proud’hon, Corot, Ingres, Cézanne, Delacroix), ma neppure accetta di comprarsi vestiti nuovi per cambiare quelli sporchi e consunti con cui si aggira per casa.
Posare per lui, nelle interminabili sedute mattutine a 5 franchi per volta, è come entrare in una stanza delle torture. Degas costringe Pauline a torsioni ardue, ai limiti dell’equilibrio, per esempio a poggiare su una gamba e afferrare con la mano la punta dell’altro piede, contemporaneamente girando il collo dalla quella parte per esaminarlo. L’artista la palpa, ne segue la linea dell’anca o l’intersezione di un muscolo, per poi trasferire la propria emozione nella materia plastica. Ogni tanto si avvicina con un compasso per prendere delle misure, e per la modella sono attimi di terrore da cui si può uscire con graffi e sfregi.
Apocalittico antisemita
Quando è in vena, Degas canticchia arie dell’opera italiana, o si abbandona a interminabili monologhi nonsense, con deragliamenti scurrili che imbarazzano Pauline. Ma basta poco per fargli cambiare l’umore. Basta che qualcuno suoni il campanello e si faccia avanti con un «Caro maestro!», per vedersi sbattere la porta in faccia con un perentorio «Qui non ci sono cari maestri!». Oppure basta un qualche non intenzionale riferimento della ragazza, per fargli sciorinare tutto il repertorio della sua inguaribile misoginia e di un apocalittico antisemitismo. Poi viene il momento dei lamenti, per la prostata che gli tormenta le notti, per la vista che se ne va – meglio morire!, geme, ma subito dopo contraddicendosi rabbrividisce al pensiero della nera signora. Con la modella alterna momenti di confidenza e perfino di giocosità a aspre esplosioni d’ira. Le rimprovera di non saper posare, di essere fiacca, le sferra pugni nella schiena per costringerla a raddrizzarsi. Una volta addirittura la minaccia con un martello, «Mi viene voglia di spaccarle la testa!», ma lei lo disinnesca con una smorfia: «Questo non è un attrezzo da scultore! Le servirebbe almeno un blocco di marmo». Lui ride: «È vero. Non sarò mai uno scultore».
Le cere e i bronzi
E infatti dopo il precedente della celeberrima Piccola ballerina di 14 anni, presentata al pubblico con critiche poco benevole nel 1881, Degas non espone più le sue statuine. Nonostante dalla scultura, in cera policroma e in terracotta, fosse naturalmente attratto, se non altro per via delle frequenti visite ai presepi di Napoli, dove suo nonno si era trasferito ai tempi della Rivoluzione francese e dove conservava alcuni parenti.
Con Pauline il lavoro a tastoni procede a rilento, abbandonato e ripreso. È più di un anno che la modella posa, e da mesi non vede progressi. Teme che anche la «sua» statua finisca come tante altre, tutte di un quarto della grandezza naturale, dimenticate a impolverarsi inconcluse su un tavolo in fondo all’atelier. Degas non è mai soddisfatto, come testimonia la nipote accade spesso che un’opera sia (sembri) quasi terminata, quando l’artista con un colpo improvviso la schiaccia e la riduce a una palla di argilla che si rigira tra le mani. Per di più il suo lavoro è travagliato da mille avversità, perché tra una seduta e l’altra le statue si seccano e, a causa delle torsioni sempre più esasperate a cui le sottopone, spesso un braccio o una gamba si stacca, oppure succede che spunti fuori uno dei pezzetti di sughero con cui le riempie per risparmiare sui materiali più costosi, cosicché bisogna estrarre, riempire, riparare…
Dopo la morte dell’artista, delle sue sculture furono ritrovati nell’atelier soprattutto i frantumi, riconducibili a 150 statue. L’amico artista, nonché esecutore testamentario, Paul-Albert Bartholomé ne recuperò 74, che dopo il restauro furono affidare alla fonderia Hébrard perché ne ricavasse i bronzi. Le cere, riemerse nel 1954 da un deposito della fonderia, vennero vendute al magnate americano Paul Mellon che in gran parte le donò alla National Gallery di Washington. E, come si augura nella postfazione del libro Jean-Loup Deville, le vicine celebrazioni per il centenario della morte potrebbero essere l’occasione per una mostra che finalmente le metta a confronto con le repliche di bronzo che Degas non vide mai.