Corriere della Sera , 28 novembre 2015
L’Italia e la questione tunisina alla fine dell’Ottocento
Gradirei sapere perché s’incrinarono i rapporti tra Francesco Crispi e il conte Luigi Corti, che aveva svolto funzioni importanti, come ministro degli Esteri, al Congresso di Berlino del 1878. Quali furono i motivi di tale provvedimento?
Piero Campomenosi
Caro Campomenosi,
Nella vulgata nazionalista della politica estera italiana, Luigi Corti (ministro degli Esteri dal 24 marzo al 24 ottobre 1878) è il diplomatico inetto, pavido e rinunciatario che tornò da Berlino con le «mani nette» (ovvero vuote) e permise alla Francia di impadronirsi della Tunisia: una terra in cui gli italiani rappresentavano da molto tempo la più numerosa delle comunità europee. Francesco Crispi, che lo aveva preceduto al ministero degli Esteri nel governo presieduto da Depretis, lo detestava e ne troncò la carriera diplomatica quando tornò al potere poco meno di dieci anni dopo.
Credo che Corti meriti un giudizio diverso, meno partigiano e passionale. Ma occorre ricordare anzitutto quali fossero le condizioni dell’Europa quando divenne ministro degli Esteri nel governo presieduto da Benedetto Cairoli. La Russia aveva sconfitto la Turchia e aveva imposto all’Impero Ottomano un trattato leonino che le garantiva il controllo della penisola balcanica con una ipoteca sugli Stretti. Alle altre potenze europee questo trattato non piacque. Dissero a Pietroburgo che occorreva rivederne tutte le clausole e convocarono un congresso che si tenne a Berlino sotto la presidenza del cancelliere Bismarck. Riunito per impedire alla Russia di satellizzare l’Europa sudorientale, il Congresso divenne rapidamente una sorta di mercato per la ridistribuzione del potere nel Mediterraneo e nell’Adriatico. La Russia dovette rinunciare ad alcune delle sue conquiste. L’Austria-Ungheria fu autorizzata a occupare militarmente la Bosnia e l’Erzegovina, la Gran Bretagna ebbe Cipro e alla Francia fu detto che avrebbe potuto estendere sino alla Tunisia i suoi possedimenti nordafricani.
Vi era spazio per qualche rivendicazione italiana? Corti accennò al Trentino, ancora «irredento», ma sembra che il delegato russo, Aleksandr Gorchakov, abbia chiesto sarcasticamente se l’Italia, per chiedere una nuova provincia, avesse perso un’altra guerra. Forse il ministro degli Esteri dette prova di una eccessiva timidezza, ma era convinto che lo Stato italiano, dopo il grande sforzo unitario degli anni Cinquanta e la presa di Roma nel 1870, fosse ancora troppo giovane e fragile per correre nuovi rischi e assumere altre responsabilità. Si scontrò con Crispi perché l’uomo di Stato siciliano era allora il maggiore rappresentante di una corrente nazional-popolare che considerava l’Unità come la necessaria premessa di un grande destino mediterraneo: una eredità che verrà raccolta dagli interventisti del 1915 e da Mussolini. A Corti occorrerebbe riconoscere almeno il merito di avere rappresentato un’altra Italia, non meno patriottica, ma più consapevole dei propri limiti.