Corriere della Sera, 28 novembre 2015
«L’orario di lavoro è un vecchio attrezzo» dice il ministro Poletti. Polemiche
I sindacati hanno i nervi a fior di pelle. Ieri è bastato che il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, in un convegno all’Università Luiss, dicesse che bisogna «immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento l’ora-lavoro» perché si scatenasse una rissa con Cgil, Cisl e Uil. Il perché è presto detto. Le tre confederazioni hanno cominciato la scorsa settimana una difficile trattativa fra loro per mettere a punto una proposta comune sulla riforma delle regole di contrattazione, con l’obiettivo di evitare ciò che più temono: l’intervento del governo per legge che fissi il salario minimo. Una mossa annunciata in passato dallo stesso presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Salario minimo per legge, come esiste in molti Paesi, che condannerebbe a morte i contratti nazionali di lavoro – la cui funzione principale è appunto quella di fissare i cosiddetti minimi di retribuzione – e il ruolo delle centrali sindacali (ma anche delle associazioni imprenditoriali), ridisegnando le relazioni industriali su base aziendale.
Ma cosa ha detto esattamente ieri Poletti? «Dovremmo essere capaci di immaginare un cambiamento dei contratti di lavoro che non abbiano più come misura unica essenziale di riferimento l’ora di lavoro, che è un attrezzo vecchio. Come si misura l’apporto all’opera, cioè al risultato finale? Se teniamo come riferimento l’ora di lavoro, ci troveremo un freno che blocca la nostra capacità di fare. Credo che sia un tema su cui lavorare». Tanto è bastato per provocare la dura reazione dei sindacati. Non appena letti i flash di agenzia, la prima a rispondere è stata addirittura la Cisl, che pure è la confederazione più disponibile a rinnovare profondamente il modello contrattuale. Insolitamente dure, invece, le parole del segretario confederale, Gigi Petteni, che per la Cisl sta facendo la trattativa con Cgil e Uil: «È molto meglio che il ministro si concentri sulle politiche attive del lavoro o sull’abuso che si sta facendo dei voucher, piuttosto che dare indicazioni sul modello contrattuale. Poletti lasci lavorare i contrattualisti del sindacato e delle altre parti sociali. Ciascuno faccia il suo mestiere». Subito dopo è arrivato il contrattualista della Cgil, Franco Marini, che ha appunto confermato quale è il problema, secondo i sindacati: «Il ministro vuole rottamare il contratto nazionale proprio nel momento il cui il confronto fra Cgil, Cisl e Uil sembra essere partito col piede giusto. Viene da pensare che la questione non sia tanto la contrattazione quanto il sindacato. Se poi si punta al superamento dei minimi salariali definiti dai contratti per giustificare l’introduzione del salario minimo legale, sappia il ministro che il sindacato si opporrà». Nel merito, la leader della Cgil, Susanna Camusso, dopo aver invitato Poletti a «smetterla di scherzare con il lavoro», sottolinea: «Bisogna ricordarsi che la maggior parte delle persone fa un lavoro faticoso, nelle catene di montaggio, negli ospedali, nelle campagne, dove il tempo è fondamentale per salvaguardare la loro condizione». E comunque, aggiunge Marini, «sono anni che il salario viene determinato anche in funzione dei fattori di qualità».
Ma questo lo sa anche Poletti. E quindi il punto è che il governo pensa che il baricentro della contrattazione vada spostato in azienda per legare maggiormente salario e produttività. Si può fare questo senza depotenziare troppo il contratto nazionale? È la scommessa di Cgil, Cisl e Uil. Ma se il sindacato non realizzerà un effettivo spostamento della dinamica salariale sui risultati aziendali, il governo potrebbe rompere gli indugi e varare il salario minimo legale, magari con la motivazione di raggiungere tutti quei lavoratori oggi non tutelati dai contratti nazionali. Sarebbe solo un atto di «liberismo sfrenato», sostiene il leader della Uil, Carmelo Barbagallo.