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 2015  novembre 27 Venerdì calendario

Lo Stato Islamico non va avanti a petrolio

Dopo gli attentati di Parigi, la reazione militare internazionale contro lo Stato islamico ha mirato con particolare determinazione a colpire il petrolio e i traffici petroliferi controllati dall’organizzazione terroristica. Secondo molte analisi, infatti, il petrolio è una delle principali risorse a cui il Califfato può attingere per finanziare la sue strategia del terrore. Analisi apparentemente rafforzate da dati allarmistici spesso basati sull’aneddotica raccolta da fonti giornalistiche e non, sfruttando improbabili (e non verificabili) testimoni locali – piccoli trader, guidatori di camion e altri mezzi con cui il petrolio dell’Is lascia la Siria e l’Iraq, principalmente diretto verso la Turchia, da sempre terreno di contrabbando di greggio proveniente dai due Paesi confinanti. Testimonianze corroborate anche da video e altre immagini che mostrano carovane di automezzi diretti verso le frontiere turche, e perfino uomini che trasportano a mano barili di plastica contenenti il prezioso oro nero. Tuttavia, molti dei dati e dell’aneddotica che circolano a livello internazionale sono infondati e ingannevoli.
Forse, in alcuni mesi del 2014, lo Stato islamico era davvero riuscito a procurarsi introiti significativi – ma non faraonici – dalle vendite di petrolio: ma adesso è difficile che le cose stiano nei termini preoccupanti con cui vengono spesso presentate. Vediamo perché, scendendo nel dettaglio dei vari paesi attualmente ostaggio – almeno in parte – dell’Is.
Per inquadrare meglio i numeri forniti da questo esame, è necessario ricordare ai meno esperti che oggi la produzione mondiale di petrolio si aggira sui 98 mbg (milioni di barili al giorno), e la capacità produttiva supera i 102 mbg.
Siria. L’unico giacimento di discrete proporzioni controllato dall’Is è quello di al-Omar, la parte più grande della formazione Furat, un tempo operata dalla Shell. Nel loro insieme, i giacimenti di Furat producevano circa 90.000 barili al giorno (bg), prima di colare a picco a causa della guerra civile. In particolare, al-Omar raggiungeva i 50.000 bg, poi la sua produzione è crollata a 20.000 bg. Gli attacchi aerei lanciati da francesi, russi e americani nelle ultime settimane hanno ulteriormente ridotto la sua capacità, che adesso sarebbe di 6-7.000 bg. Il Califfato controlla anche quantità più modeste di produzione petrolifera siriana: circa 2.000 bg del giacimento di Deir al-Zour (prima operato da Total), circa 1.000 bg dal Blocco 26 del giacimento Gulf Sands, nonché modesti volumi di gas naturale e condensati del giacimento occidentale di Sha’ar. Nel migliore dei casi, quindi, lo Stato islamico potrebbe controllare 10.000 bg di petrolio in Siria.
Iraq. Numeri analoghi anche in Iraq. Fino al 20 novembre, l’Is controllava principalmente le produzioni di alcuni giacimenti piuttosto piccoli: al-Qayyarah e Najmah nel nord, in prossimità di Mosul, in area curda; Himrin e Ajil, al centro-nord, vicino alla città natale di Saddam Hussein, Tikrit. Altri piccoli giacimenti produttivi occupati in precedenza erano stati riconquistati dalle forze curde o resi inagibili da operazioni militari.
A metà del 2014, al momento della massima produzione, Ajil e al-Qayyarah toccavano rispettivamente i 25.000 bg e i 20.000 bg; gli altri oscillavano tra i 10.000 bg e i 2.000 bg. Tuttavia, già prima dei raid aerei post-attentati di Parigi, la produzione di tutti questi giacimenti era stata compromessa. Oggi Ajil e al-Qayyarah non superano i 3.000 bg (ma ci sono dubbi sulla continuità produttiva di Ajil). Nel complesso, le analisi più accurate indicano che gli uomini del Califfo controllano tra i 6.000 (più probabile) e i 15.000 barili al giorno (bg) in Iraq, Paese che produce 4,1 milioni di barili al giorno (mbg). Oltre il 90 per cento di questa produzione proviene dal sud del Paese, roccaforte degli sciiti simpatizzanti dell’Iran e nemici giurati del Califfato sunnita.
Libia. Quasi nulla la produzione finora controllata dall’Is in Libia, anche se nel paese la situazione è più delicata. L’80 per cento delle riserve petrolifere si trova nella parte orientale, mentre gran parte delle riserve e delle infrastrutture di gas naturale (tra cui quelle che consentono l’esportazione di gas libico in Italia) è nella parte occidentale. Come noto, a est e ovest vi sono due governi diversi (Tobruk e Tripoli), che tuttavia non hanno un controllo effettivo sulle due regioni, dominio di milizie indipendenti. Questa atomizzazione del controllo del territorio, insieme alla relativa dispersione dei giacimenti petroliferi, rende più elevato il rischio che una porzione significativa della capacità petrolifera del Paese possa cadere in futuro nelle mani del Califfato. In ogni caso, l’intera produzione libica è ridotta ai minimi termini, circa 400.000 bg (contro un potenziale di 1,7 mbg), e far uscire il petrolio da un Paese in mano a milizie differenti che ha i suoi sbocchi sul Mediterraneo non è facile.
Un po’ di matematica. L’Is riesce a vendere il petrolio che controlla a un prezzo fortemente scontato, dovendo ricorrere al contrabbando o a piccoli trader fuori dal mercato ufficiale. Lo sconto supera talvolta il 50 per cento del prezzo ufficiale, e pertanto nelle ultime settimane si è aggirato sui 20-25 dollari a barile. Assumendo che tra Siria, Iraq e Libia il Califfato possa controllare e vendere un massimo di 20.000 barili al giorno al prezzo scontato di 25 dollari a barile, l’introito petrolifero giornaliero dell’organizzazione sarebbe di 500.000 dollari. Più probabile che la produzione venduta non superi i 15.000 bg, con un introito giornaliero di 375.000 dollari. Su base media annua, i numeri scendono ulteriormente – rispettivamente a 10.000 bg e 250.000 dollari al giorno, ovvero poco più di 91 milioni di dollari l’anno. Una bella fonte d’entrate, non c’è dubbio, soprattutto considerando che organizzare un attentato e finanziare una cellula terroristica può costare poche migliaia di dollari. Ma non certo un reddito che – di per sé – può permettere al Califfato di condurre una lunga guerra di occupazione su più fronti e una guerra santa globale. In altri termini, oltre al petrolio sono ben altre le fonti di entrata che devono essere tenute sotto controllo e colpite.
L’autofinanziamento originato dall’oro nero, tuttavia, è solo una faccia del rapporto tra Is e petrolio. Da molto tempo, le varie agenzie di intelligence statunitensi valutano la possibilità che lo Stato islamico possa colpire impianti, oleodotti, giacimenti di tanti Paesi, soprattutto arabi. In questo modo, l’Is potrebbe destabilizzare il mercato mondiale del greggio, facendone di nuovo schizzare i prezzi alle stelle e colpendo un nervo sensibile delle economie occidentali. Ma questo obiettivo è particolarmente complicato da conseguire.
Dagli anni Settanta a oggi, ogni movimento arabo-islamista che abbia fatto ricorso al terrore come strumento di lotta ha sempre considerato “l’arma del petrolio” un elemento strategico in chiave anti-occidentale. Tuttavia, nessuno di quei movimenti è riuscito a sguainare l’arma perché le istallazioni petrolifere dei Paesi arabi – a partire dall’Arabia Saudita – sono obiettivi difficili da colpire: in generale, sono presidiate da ingenti apparati di sicurezza e si estendono su vaste aree con impianti multipli riparabili in tempi brevi. In altri termini, solo operazioni militari di maggiori dimensioni potrebbero provocare danni veramente esiziali, non il singolo attentato di una cellula.
Inoltre, l’attuale struttura del mercato mondiale del petrolio rappresenta un altro ostacolo: c’è troppo petrolio nel mondo, e i prezzi dell’oro nero continuano a essere deboli. A peggiorare le cose, l’eccesso di offerta tende a prolungarsi per effetto di investimenti in nuova capacità produttiva in via di completamento. Di fronte a questa situazione, occorrerebbero azioni di vasta portata militare contro grandi centri nevralgici del petrolio per ribaltare il senso del mercato. Certo, non si può escludere una forte spinta sui prezzi di un attentato di minore dimensione, soprattutto per gli effetti psicologici che questo comporterebbe. Ma sarebbe un effetto di breve durata.
Allarmismo ingiustificato? Sì, a breve, ma attenzione a guardare oltre. Questa breve ricostruzione suggerisce che difficilmente il petrolio può rappresentare un’arma decisiva per l’Is, almeno a breve termine. Ma attenzione. Poiché quella con l’Is è una guerra di lungo termine, è impossibile scartare il rischio che il Califfato – prima o poi – possa riuscire là dove i suoi predecessori hanno fallito. Tutto dipenderà da come evolveranno nel tempo le capacità militari e organizzative dell’Is stesso: se dovesse restare soltanto un’organizzazione di guerriglia – come al Qaeda – avrebbe difficoltà a utilizzare l’arma del petrolio. Se diventerà qualcosa di diverso, allora lo scenario potrebbe cambiare radicalmente.