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 2015  novembre 27 Venerdì calendario

Tre domande sul futuro delle Ferrovie

È sufficiente rottamare l’intero cda delle Ferrovie per portare al traguardo una privatizzazione dalla quale il governo si aspetta molto? E questa privatizzazione servirà solo a far cassa o sarà accompagnata anche da liberalizzazioni e maggiore concorrenza? Ancora, qual è la posizione del governo sulla cessione delle Ferrovie: bisogna vendere una quota dell’intera società, oppure è meglio scorporare prima la rete ferroviaria – i binari, insomma – rendendola pubblica e poi quotare il resto?
Sono tre domande ancora senza risposta, proprio nel giorno in cui l’intero cda della società si dimette e fa decadere così sia il presidente Marcello Messori sia l’amministratore delegato Michele Elia.
Una mossa opportuna, si dirà, visto che ormai da mesi lo stallo tra Messori ed Elia aveva messo l’azienda in una situazione complessa. Tra i punti di contrasto dei due anche e soprattutto lo scorporo dell’azienda Rfi, quella che gestisce la rete ferroviaria, controllata al 100% dalla holding Ferrovie, e che esercita due funzioni distinte: da una parte gestisce gli investimenti sulla rete e fa manutenzione per conto del governo; dall’altra assegna le tracce alle varie imprese ferroviarie che su quella rete fanno viaggiare i loro vagoni. Messori, da economista, ha sempre spinto per una separazione della rete dall’operatore ferroviario che la possiede per favorire, come da teoria di scuola, la libera concorrenza con la neutralità della rete. Elia, da vecchio uomo delle Ferrovie, puntava invece a mantenere la rete in casa. Il problema è che, fuori i due contendenti, lo stesso dilemma si pone ai piani alti del governo: il ministro delle Infrastrutture Del Rio vuole una rete pubblica e scorporata dalle Ferrovie da privatizzare, quello dell’Economia Padoan preferisce tenerla dentro la società e affidarla quindi alla Borsa.
Il problema è complesso: in molti Paesi europei la rete ferroviaria è nella stessa holding che gestisce l’attività di trasporto. La Francia, che l’aveva scorporata, l’ha rimessa in casa dal primo gennaio scorso. Chi sostiene i vantaggi nella gestione unitaria della rete e del trasporto – tradizionalmente i monopolisti ferroviari – afferma che la parità di accesso si garantisce non con la separazione della rete, ma semplicemente con la neutralità dell’«allocation body», l’organismo che aggiudica i diritti di percorrenza sulla rete ai vari operatori ferroviari, magari mettendolo sotto un cappello pubblico. Basta fare questo per avere senza problemi quotazione e liberalizzazione del settore? Non proprio, perché i binari che formano la rete di Rfi hanno un valore patrimoniale sproporzionato, visto che negli anni ha contabilizzato di fatto come patrimonio gli interventi fatti con i soldi pubblici. Per portarla in Borsa bisognerebbe svalutare quei binari, che oggi valgono sui libri contabili oltre 40 miliardi, di due terzi circa. In alternativa si metterebbe sul mercato una società così «pesante» come patrimonio che per remunerare il capitale ci vorrebbero tassi di redditività che le pur redditizie Ferrovie nemmeno si sognano.
Non c’è una soluzione giusta per definizione e non c’è forse un’unica soluzione. Quel che è certo, però, è che su questi nodi si deve decidere prima di dare mandato al nuovo cda – da chiunque esso sia formato – di procedere alla privatizzazione.