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 2015  novembre 25 Mercoledì calendario

Scandali, deprecazioni e malcostume nell’anno 1869

Cominciammo fin dall’inizio a deprecare noi stessi. Dalla fine del primo decennio di vita del nostro Stato unitario. Nel discorso pubblico del nostro Paese compare di frequente il richiamo agli «anni felici» della Destra storica al governo (1861-1876). Un’epoca che conobbe, è vero, i tumulti per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze (1864), le sconfitte militari di Lissa e Custoza nella Terza guerra di indipendenza (1866), un principio di guerra civile nel Mezzogiorno, le persistenti tensioni tra classe di governo e seguaci di Mazzini e Garibaldi, la protesta successiva all’introduzione della tassa sul macinato, qualche primo scandalo come quelli che accompagnarono la privatizzazione dei tabacchi e la concessione dell’appalto per le Ferrovie meridionali. Ma che è passato alla storia per la stabilizzazione politica successiva alla scomparsa di Cavour (6 giugno 1861), la costruzione di un sistema di infrastrutture e di un forte apparato statale, la «conquista» prima del Veneto (1866), poi di Roma (1870), e il pareggio di bilancio ottenuto da Marco Minghetti nel 1876. Eppure proprio allora ci fu un momento, alla fine degli anni Sessanta, in cui si diffuse un senso di smarrimento e affiorarono alcuni modi pessimistici di guardare all’Italia, destinati a restare nel Dna del nostro Paese. È questo il tema di un importante libro di Arianna Arisi Rota, 1869: il Risorgimento alla deriva. Affari e politica nel caso Lobbia, che sta per essere pubblicato dal Mulino. 
In un libretto del 1862 Ferdinando Petruccelli della Gattina era stato spietato con i politici nuovi del neonato Stato unitario, definendoli fin dal titolo I moribondi del Palazzo Carignano. E c’è una lettera del 1867 di Bettino Ricasoli al fratello Vincenzo in cui si parla dell’Italia come di una terra che sta per essere inondata dal «torrente dello sfacelo». In un dispaccio al ministro degli Esteri inglese lord Clarendon, l’ambasciatore della regina Vittoria a Firenze avrebbe scritto nel giugno 1869 che l’Italia guidata dal presidente del Consiglio Luigi Federico Menabrea era una nave prossima al naufragio. E già nel marzo del 1868 il deputato Vincenzo Stefano Breda, a proposito della tassa sul macinato, aveva detto: «L’imposta è detestabile ed io personalmente la detesto. E se mi induco sotto certe condizioni a votarla, lo faccio come il naufrago che, per salvare la vita, si attacca non ad una tavola soltanto, ma anche ad un rasoio». Un giornale democratico di Parma, «Il Presente», scriveva: «Richiamata l’Italia a novella vita per opera quasi esclusiva di illustri patrioti avanzi dello Spielberg, di Mantova, del Castel dell’Ovo, cadde sventuratamente sotto l’amministrazione degli antichi fedelissimi servitori di quei tiranni, cadde sotto il governo di chi non solo vergognava a pronunciare il nome, ma prestavasi quale feroce sicario a porre ceppi e capestro a quanti aspirassero ad unirla». 
Arisi Rota mette in rilievo «il sincretismo nelle grida collettive registrate nelle carte di questura e di prefettura un po’ dovunque: agli “abbasso il macinato, abbasso il parlamento, morte ai milionari” si affiancavano infatti i “W la Repubblica” ma anche i “W l’Imperatore d’Austria, W il Papa” in un misto di nostalgia per il paternalismo fiscale dei regimi passati e di furia iconoclasta». Slogan ai quali la stampa filogovernativa reagiva evocando il «complotto dei rossi e dei neri». L’Italia centrale, secondo la «Perseveranza» di Milano, era «diventata da più tempo il campo delle sette repubblicane e clericali, che l’hanno insieme travagliata e viziata». Una cospirazione a cui allude lo stesso Menabrea, quando afferma davanti al Parlamento di aver intravisto «il sogghigno di un certo partito, il quale spera nei disordini e nella debolezza del governo per poter ripristinare gli ordini antichi». «L’imposta sulla macinazione, se Dio vuole, macinerà la monarchia», annota sul suo diario il deputato sardo della Sinistra Giorgio Asproni, di cui si è occupata, in termini che riconducono spesso alle considerazioni di questo libro, Francesca Pau in Un oppositore democratico negli anni della Destra storica (Carocci). Su questi temi si è soffermato con osservazioni interessanti anche Fulvio Cammarano in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea (Il Mulino), curato da Loreto Di Nucci ed Ernesto Galli della Loggia. Il giornale di Achille Bizzoni, «Gazzettino Rosa», già nel 1868 scrive che «l’Italia bambina a cui tutto arrideva, si è ingrandita, ma quanti disinganni vennero colla pubertà… Ora la umiliata, la tradita, è magra, diafana come la moribonda di consunzione». E ancora: «Il marciume di una gangrena inguaribile dall’alto è sceso in basso, e speriamo che quanto prima non vi sarà molecola di questa malata moribonda non rosa dal malore che, puzzolente cadavere, la trarrà nella tomba». Gli uomini di governo e la stampa che li sostiene in un batter d’occhio diventano per i giornalisti di Bizzoni «canaglia gallonata», «briganti in guanti gialli», «infinita corte delle marionette ufficiali ad ogni ufficio disadatte fuor che a quello di sanguisughe della nazione», «alti locati che si pappano a centinaia i biglietti di banca per dare l’ultimo crollo alla baracca mal costruita e peggio riparata». «Chi demolisce l’Italia sono i ministri», sentenzia il «Gazzettino». Riferimento del giornale è un controverso parlamentare caratterizzato – secondo Alessandro Galante Garrone nella biografia Felice Cavallotti (Utet) – «da una genuina ansia di pulizia morale, di esemplare correttezza nella vita pubblica». Ma si deve ricordare che un altro studioso azionista, Augusto Monti, fu assai meno indulgente verso Cavallotti. 
  
È un parlamentare della sinistra, Agostino Bertani, ad introdurre il concetto di un «sistema» pronto a concedersi una «mutua amnistia» in virtù di «una solidarietà che ha sempre esistito ed esiste fra tutti gli uomini che tennero il governo dal 1860 in poi». Tutti «adoratori del medesimo Dio, tutti sacerdoti del medesimo culto, colle stesse giaculatorie sulle labbra; tengono alti i lembi di quella tenda che nasconde agli sguardi profani le arcane magagne di tutti i Ministeri». Per poi invocare un’«ardita minoranza» che al momento opportuno «troverà le armi e all’occasione afferrerà il comando in mezzo ad un’immensa catastrofe». Parole con le quali, scrive Arianna Arisi Rota, il parlamentare «andava a toccare i nervi scoperti della nazione». E prefigurava qualcosa di assai diverso da ciò che era nei suoi auspici. 
Nel corso della discussione sulla Regia dei tabacchi, Giovanni Lanza, per prendere le distanze dalla Destra, si dimette dalla presidenza della Camera, mentre Antonio Mordini si distacca dalla Sinistra per dar vita al cosiddetto «Terzo partito». «Mordini», annota Asproni, «ha fatto il suo passaggio aperto ai campi ministeriali con un discorso che ha stomacato». Il 4 settembre 1868, Cavallotti introduce, per descrivere quel che si profila, un termine destinato a entrare nel lessico politico: «patatrac». In dicembre il «Gazzettino» accusa il parlamentare Giuseppe Civinini di essersi lasciato corrompere: «Si dice che condisse con uno zuccherino di molte e molte migliaia di lire – ci si precisa perfino la cifra ma noi non vogliamo ripeterla – la sua patriottica approvazione». Raimondo Brenna, direttore della «Nazione», la definisce una «sozza accusa». Ne deriva una razione di contumelie anche per lui, descritto dal «Gazzettino» come un «intrigante, perpetuo, instancabile cacciatore delle briciole che cadono dal banchetto dei ministri», il quale «dall’alto della greppia, satollo, erutta le sue menzogne e le sue adulazioni per chi paga e comanda». «Questo governo cadrà a pezzi da sé come le membra di un cadavere putrefatto», sentenzia Asproni sul diario. 
Il discredito della politica è alle stelle. Quando Menabrea chiede al procuratore generale di Napoli, Michele Pironti, di fare il ministro di Grazia e Giustizia, la moglie di Pironti lo esorta a stare alla larga dalla «camorra piemontese». Si apre il processo per le insinuazioni su Civinini. Verrà condannato il direttore del «Gazzettino». Non prima però che Francesco Crispi ne abbia approfittato per un gioco di «dico e non dico» che getta ulteriore fango sul ceto sia di governo che di opposizione. Il giornale «Zenzero Primo» scrive: «L’aula del Parlamento è fatta simile al Mar Morto; immobile e gialla la superficie delle acque, gialla la sabbia delle rive, gialle le tinte dell’aria… l’uccello ramingo che si trovasse per caso portato dal volo dentro quella atmosfera, ne rimane asfissiato e stramazza morto sulla ferale laguna». «L’atmosfera ammorba», scrive Giacomo Dina a Michelangelo Castelli, «si sente l’odore di cadavere a mille passi». E Giovanni Lanza si rivolge alla capitale provvisoria con queste parole: «O Firenze, Firenze, quale pagina ti prepari nella storia d’Italia!». La rivista dei gesuiti, «Civiltà Cattolica», descrive tutto come un «brulicamento di vermi schifosi». Poi, a proposito di Civinini e Brenna, introduce un gioco di parole destinato a non esaurirsi in quegli anni: «Contro questi due onorevoli correvano dicerie per niente onorevoli». Benedetto Cairoli confida alla cugina Fedelina il suo «ribrezzo per questo pantano parlamentare dove sprofondano anche gli amici». 
È il momento in cui Giosuè Carducci – come ha ben messo in evidenza Umberto Carpi in Carducci. Politica e poesia (Edizioni della Normale) – introduce il tema del «non era questa l’Italia che avevamo sognato». Scriverà qualche anno dopo Pasquale Villari in una delle sue Lettere meridionali : «L’Italia nuova si trovò formata degli elementi stessi di cui era composta l’Italia vecchia, solo disposti in ordine e proporzione diversa». In una lettera di Giacomo Savarese a Giuseppe Ferrari c’è dell’altro: in Italia sarebbe al potere «un’oligarchia assai più illiberale dei governi assoluti che ha rovesciati». E il «Gazzettino rosa» è ancora più esplicito: «Le battaglie garibaldine non ci hanno dato l’indipendenza; abbiamo solo per esse mutato padrone». «Dov’è la grande politica di una volta?», si domanda Giacomo Dina. Lo sconforto giunge al punto che Cavallotti descrive un Paese in «decomposizione morale» e punta il dito anche contro la «sciancata opposizione». Ma il peggio deve ancora venire. 
Il 5 giugno 1869, il parlamentare veneto Cristiano Lobbia annuncia in Parlamento di avere le prove del «lucro» di un deputato nell’ affaire Tabacchi. Ed esibisce due buste sigillate. Il 16 giugno qualcuno attenterà alla sua vita. Garibaldi solidarizzerà con lui, parlando di «tempi borgiani». Altri metteranno in dubbio la veridicità della sua ricostruzione. Su questo scandalo ha già ben raccontato quel che accadde uno straordinario libro di Gian Antonio Stella, I misteri di via dell’Amorino (Rizzoli). Ma non è la storia in sé che qui ci interessa, bensì la ridda di dicerie demolitrici che giunse a sfiorare Vittorio Emanuele II. Il quale, stizzito, così telegrafò il 19 giugno al ministro Cambray-Digny: «Anche qui a Torino corre voce che io ho rubato milioni e Lei una quantità. Faccia dare la maggiore pubblicità al processo Lobbia, perché io ne ho la musica piena». E parte l’autodenigrazione collettiva: «l’atmosfera ammorba» (Giacomo Dina), «si sente l’odore di cadavere» (Giovanni Lanza), quella italiana si presenta come «una tisi lunga e penosa» (Ruggiero Bonghi). 
G aribaldi ha già lasciato l’aula del Parlamento. Il 14 luglio 1869 si dimette il deputato di Guastalla Carlo Righetti, in arte Cletto Arrighi, che dichiara di «non aver più ragione di restare in un’Assemblea dalla cui maggioranza si manomette in così strano modo il senso delle parole». Marco Minghetti: «Che la situazione sia brutta, chi è che non vegga?». Ma scrive a Michelangelo Castelli che si deve «resistere a questa marea fangosa che sale e che minaccia d’inghiottire tutti, e allora addio Italia». La «Libertà» rende omaggio a Lobbia «il coraggioso accusatore dei quattrinanti dell’aula dei cinquecento». «Anche oggi ha piovuto abbondantemente. L’Arno è cresciuto: le sue acque sono sporche e gialle», appunta Asproni alludendo alla vicenda politica italiana. «Mio caro Crispi», scrive Garibaldi al suo compagno d’armi nell’impresa dei Mille, «lasciarsi corrompere o morire, ecco la formola adottata dal gesuitismo politico che governa l’Italia». «La nostra patria è vile», dirà Carducci nell’ode In morte di Giovanni Cairoli. Giudizi che formano un diffuso senso comune a cui aderiscono gli osservatori stranieri come l’americano George Perkins e l’inglese Arthur Paget. La scia di questa stagione durerà a lungo, tanto che nel 1880 Ferdinando Martini, direttore del «Fanfulla della Domenica», si vedrà costretto a chiedere a Carducci l’attenuazione di un ricordo dell’estate del 1869: «Desidero che tu levi le frasi intorno all’inchiesta sulle meridionali e al processo Lobbia. Lo so: anche questa è storia; ma è storia che ancora rimane strumento in mano ai partiti. A che giova ricordarlo? A vituperare certi uomini ancora vivi e irrequieti; è storia sì, ma storia sudicia, che tu stesso dovresti volere dimenticata, se non ti servisse a dare addosso al Menabrea; s’entra dunque nella politica. Lasciamo stare». 
Poi, il 20 settembre del 1870 fu presa Roma e gli animi si calmarono. Qualcuno si entusiasmò. Ma per un breve lasso di tempo. Anzi da allora sono trascorsi centoquarantacinque anni nei quali invettive e deprecazioni sullo stato del nostro Paese si sono sempre ripresentate, eccezion fatta per qualche intervallo, con spunti e parole simili, se non identiche, a quelle del 1869. Strana particolarità, tutta italiana.