Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 24 Martedì calendario

Un giardino fatto di labirinti, con colori al posto dei fiori. Una mostra a Venezia è dedicata a Ferruccio Gard, ritrattista della materia

Anche se da oltre quarant’anni vive a Venezia, Ferruccio Gard è rimasto un «piemontese autentico». Di quelli, cioè, che hanno sempre puntato tutto sulla centralità del lavoro e sul senso del dovere. Nel suo caso particolare, sia nel fare il giornalista televisivo, sia nel costruire labirinti colorati: parallele, griglie, intrecci, rettangoli, quadrati inseriti l’uno dentro l’altro, a formare labirinti «elettronici» che sembravano non avere fine. Al centro, talvolta, forme organiche, silhouette ( Ecce homo ), pennellate di colore puro.
Qualcuno li ha definiti «ritratti della materia». Che paiono vibrare, però e che vivono di vita propria. Può un colore «puro» dare emozioni?, ci eravamo chiesti. E diventare anche personaggio? Beh, attraverso giochi astratti di luce-spazio-forma inseriti in cornici geometriche, Gard ha sempre tentato l’una e l’altra strada. Cornici che, per Achille Bonito Oliva, creavano «macchine formali che contenevano in sé l’idea della costruzione e dell’incastro».
In realtà, Gard è partito, negli anni Settanta, dall’arte cinetica (quella che introduce il movimento nelle varie opere d’arte; movimento che può essere reale o provocato da un’illusione ottica) per approdare alla op art (arte programmata e concreta). In questo senso il suo percorso è sempre stato lineare.
E continua ad esserlo nella mostra antologica veneziana (1969-2015) al museo di Ca’ Pesaro (aperta sino al 6 dicembre), curata da Gabriella Belli, in cui sono presenti anche lavori di grandi dimensioni. Mostra che – ha osservato Enzo Di Martino, critico che segue Gard da qualche decennio – diventa una sorta di consacrazione per l’autore che il mese prossimo compirà 75 anni (l’artista è nato a Vestigné, provincia di Torino, nel 1940). E la Belli: «Nell’anno della Biennale, che esplora temi politici di forte tensione morale, la proposta di una sequenza compatta e organica di vera pittura, sembra un giardino fiorito nel quale si ricompongono le gerarchie degli strumenti essenziali per dipingere».
Entriamo nel giardino, allora. Non in quello «venuto dal vento» di Maria Gabriella Buccioli, che ci ha scritto su anche un libro (edizioni Pendragon), ma in un giardino particolare formato da tanti piccoli labirinti dove le piante sono sostituite dai colori, ma non per questo meno interessanti. Alla fine si ha l’impressione di trovarsi dinanzi a quinte teatrali dove personaggi principali, comprimari e comparse vengono interpretati dai vari arancione, grigio, giallo-ocra, verde, marrone, bianco e nero sintetizzati nei titoli ( Struttura dinamica, Incontro cinetico, Movimenti percettivi, Cromatismo strutturale, Cromodinamica, Modulazioni, Cromatismi, Effetti colore e così via). Lavori che possono essere percepiti, ma anche spiegati. Gard riesce persino a emozionarsi dinanzi ad essi e a indicarne le fonti di ispirazione. Intanto, Venezia (dove ha partecipato a sei Biennali); e poi le Dolomiti cortinesi «con le loro infinite e continue variazioni cromatiche e di luce». Un po’ come facevano gli impressionisti quando dipingevano en plein air. Con una differenza: i protagonisti del movimento francese si dedicavano soprattutto a paesaggi o a soggetti colti in diverse ore della giornata, Ferruccio Gard ama perdersi nei meandri geometrici. Le ultime ricerche cromatiche puntano sull’ optical. È il trionfo del bianco, del nero e del grigio in varie sfumature, cui si aggiungono, al massimo, un paio di colori. Si torna a quello che sul «Corriere», a suo tempo, Riccardo Barletta aveva definito «un astrattismo post-moderno, lirico e, in più, conoscitivo».