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 2015  novembre 01 Domenica calendario

Peter Bogdanovich, l’attore nato per far ridere mamma e papà, che da trent’anni cerca di finire l’ultimo capolavoro di Welles e che teme l’ora del lupo

Peter Bogdanovich ha settantasei anni: “Wes Anderson, Quentin Tarantino e Noah Baumbach mi chiamano ‘nonnetto’. Gliel’ho concesso perché non mi dà nessun fastidio e perché in fondo e in superficie, i miei amici di oggi – affetti veri e costante fonte di ispirazione – sono loro. Quelli che avevo da ragazzo appartenevano a una generazione precedente: Orson Welles, Howard Hawks, James Stewart, John Huston. Tutti più grandi di me, più adulti, più vecchi. Tutti morti, purtroppo”.
La voce roca, gli occhiali, il foulard. La vita romanzesca, la curiosità, i mestieri. Bogdanovich è stato attore, sceneggiatore, documentarista, giornalista, giocatore d’azzardo, Casanova, critico e regista di una ventina di film. In quello che nel 1971 gli restituì fama, onori e premi, L’Ultimo Spettacolo, il vento spazza le strade in bianco e nero di un’immaginaria cittadina del Texas, la radio avverte: “Arriva il Presidente Truman” e Ben Johnson, il Tector Gorch de Il Mucchio Selvaggio di Peckinpah, si guadagna l’Oscar come migliore attore non protagonista ammonendo da oste di frontiera i giovani avventori: “Non conosci il valore dei soldi: hai già speso dieci centesimi, ma non hai ancora fatto una colazione decente”. Con la cognizione del denaro, qualche problema lo ha avuto anche Bogdanovich.
Ha guadagnato moltissimo, ancor di più ha dilapidato e dopo aver dichiarato bancarotta due volte – dice – ha smesso di preoccuparsi: “Oggi con i soldi ho un rapporto amichevole: ne vorrei di più, ma tutto non si può avere e non decido io. Da giovane era diverso, con i dollari non avevo nessuna confidenza perché i dollari semplicemente non c’erano. Poi arrivarono e così come vennero, sparirono. Avevo girato …E tutti risero – un lavoro in cui credevo molto – e mi incaponii nel volerlo distribuire a tutti i costi per conto mio senza intuire in che follia mi stessi imbarcando. In America i grandi studios dettano legge ed esercitano un potere che è saldamente e per intero nelle loro mani. Se decidono di cacciare il tuo film dalle sale per metterci il loro lo fanno. E tu sei fottuto. All’epoca, era il 1980, per …E tutti risero persi 5 milioni di dollari: proprio il valore della casa di Bel Air in cui vivevo”.
Parafrasando il titolo della sua ultima vitalissima impresa, nessuno meglio di Bogdanovich sa che a Hollywood come a Broadway, tutto può accadere. Anche che a un autore cresciuto venerando in egual misura Frank Capra e John Ford venga offerta un’ultima favola. Un duello western fuori tempo massimo in cui tra un equivoco, un amante, una puttana trasformata in principessa e una nevrosi, con le armi della scrittura e della fantasia, si possa cavalcare nelle praterie del ritmo e dell’umorismo per il solo gusto del colpo di scena, del ribaltamento di orizzonte e del puro divertimento cinematografico.
Per fargli realizzare Tutto può accadere a Broadway, nelle sale con 01 Distribution, si sono mobilitati in tanti. All’aiuto di Wes Anderson e Quentin Tarantino (con Tatum O’Neal, Cybill Shepherd e Michael Shannon, Quentin recita anche in un piccolo ruolo) si sono aggiunti altri complici. Un fedele sodale di Bogdanovich come Owen Wilson – molte bianche notti divise con il maestro per santificare la maratona di Breaking Bad: “Ore spese bene, non è forse un capolavoro?” e poi in ordine sparso, Imogen Poots, Jennifer Aniston, Colleen Camp, Rhys Ifans.
Un bel gruppo.
Nel film ci sono moltissimi amici. Mi hanno incoraggiato e permesso di tornare bambino.
Lei è figlio di immigrati giunti a New York negli Anni 30. Ha vissuto un’infanzia difficile?
Grazie a due genitori che hanno saputo incoraggiare qualsiasi mia inclinazione artistica, ho avuto una bellissima infanzia. Erano severi, ma molto stimolanti.
Sognava di diventare regista?
Fino a 13 anni per me esisteva solo il cinema. A indirizzarmi verso altri palcoscenici fu mia madre. “Vai a Broadway, c’è il teatro, è bellissimo”. Io non volevo saperne. Lei insistette. Mi obbligò. E allo spettacolo, uno spettacolo di livello molto, molto medio, andai.
Che impressione le fece Broadway?
Il teatro mi colpì moltissimo. Amai a tal punto l’atmosfera che per anni, ogni fine settimana, tornai regolarmente a Broadway. Mia madre come sempre aveva avuto ragione.

Di suo padre che ricordi ha?

Era un pittore. Un artista che nel nostro appartamento di New York dipingeva ogni giorno. Sono cresciuto circondato dai colori e dalle composizioni. Era artista mio padre ed erano tutti artisti, chi più chi meno, anche gli amici dei miei genitori.
Artisti squattrinati?
I miei erano arrivati in America dall’Austria e dalla Serbia e non avevano molti soldi, ma con qualche miracolo li trovarono per mandarmi in un’ottima scuola e per iscrivermi al campo estivo dove potevo frequentare i corsi di recitazione. Più che il regista, da giovane sognavo di fare l’attore. Per un breve periodo ci ho anche provato.
Sentiva di avere la vocazione?
In casa c’era una malinconia di fondo, una perenne tristezza che avvertivo ma di cui non conoscevo le ragioni. Le scoprii quando avevo 8 anni.
E cosa scoprì?
Che prima di emigrare, i miei genitori avevano avuto un figlio in Europa e che quel figlio, Anthony, era morto in un incidente all’età di 18 mesi.
Sarebbe stato suo fratello.
I miei genitori erano stati investiti da una tragedia e la mia nascita era stata un modo per lenirla. Cercavano leggerezza. Così affinai l’umorismo e la passione per la commedia allo scopo di farli ridere. È nato tutto così.
In ambito cinematografico è stato giornalista, critico, attore e poi regista. Cosa l’ha spinta a passare da un ruolo all’altro?
A vent’anni firmai la regia del mio primo spettacolo. Poi arrivò il cinema. Conoscevo bene gli attori, avevo qualche rudimento di regia. Volevo proprio “farli”, i miei film. Pensavo che i miei talenti bastassero a guidarmi con facilità fino a Hollywood e mi sbagliavo. Fui costretto a dimenticare le sicurezze, a fare i conti con la realtà, a inventarmi altro.
E cosa si inventò?
Quando nessuno pensava minimamente di offrirmi un’occasione, me la offrii da solo e mi presentai a Los Angeles. Era il ’64. Il primo a darmi una mano fu Roger Corman.
Produttore mitologico con più di 60 titoli in carriera.
Mi sentivo pieno di agganci e di possibilità e soprattutto mi sentivo molto sicuro di me. Se non ci fosse stato Corman, io forse un film non lo avrei mai girato. L’azzardo di farmi esordire se lo assunse lui.
Un buon investimento.
Avevo già diretto 5 o 6 spettacoli a teatro, presi la mano molto in fretta.
Se non altro al cinema, da spettatore, era stato spesso.
Tra i 12 e i 32 anni ho visto, catalogato e recensito non meno di 4.000 film. È stata la mia scuola, il mio modo – empirico ed entusiasta – di imparare dagli altri. 4.000 schede battute con la macchina da scrivere sulle quali annotavo anno di produzione, regista, attori e – ovviamente – le mie osservazioni e le mie critiche.
Ha mantenuto l’abitudine?
Non più. Ma le ho conservate tutte. Mi sono servite. Le ho consultate e – quando serviva– anche aggiornate. Ho continuato ad andare al cinema, ma non con la stessa maniacalità che a 15 anni mi portava in sala 3 volte al giorno.
Per mancanza di tempo?
Perché i film che fanno oggi non mi sembrano poi così interessanti. A me piacciono quelli sulla gente. Film di volti, emozioni e caratteri che non poggiano la loro forza sugli effetti speciali. I registi di oggi fanno film sulle macchine (nda: Bogdanovich dice letteralmente “sulla carrozzeria”) ed è tutto un inseguimento, un rodeo violento, una fuga fracassona, una gara all’effetto speciale. Niente che abbia veramente a vedere con le persone e con la vita vera.
Non le piacciono gli effetti speciali?
Sembra che vogliano dimostrare di poter fare qualunque cosa con gli effetti speciali, ma io dico: chi se ne frega degli effetti speciali. Voglio le persone come nei film di Renoir o di John Ford, non L’uomo ragno o I Fantastici 4. Non so che farmene di tutti questi supereroi.
Ricorda l’esatto momento in cui capì di avercela fatta?
Non lo capisci mai. Il successo arrivò molto in fretta accompagnato da un’aria strana e indecifrabile. Prima che uscisse L’ultimo spettacolo avrei dovuto dirigere Steve McQueen in Getaway, poi girato da Peckinpah. Lavorai molto all’idea e proprio questo progetto incompiuto accese l’interesse di Barbara Streisand nei miei confronti.
Streisand fu la sua protagonista in Ma papà ti manda sola?.
Nell’anno dominato da Il Padrino, mi ritrovai con L’ultimo spettacolo e Ma papà ti manda sola? nella top ten di Variety. Cambiò tutto. Nel cinema accade spesso. Ho avuto successo e ho vissuto momenti di grande difficoltà economica e professionale. All’inizio degli Anni 90 un film non voleva farmelo fare più nessuno.
Come ha gestito il successo?
Continuando a lavorare. Facevo 3 film che andavano bene e poi incappavo in tre disastri: nel lungo periodo c’era uno strano equilibrio. Con il tempo capii che ero stato eterodiretto, che Hollywood cominciava ad impormi tante cose a iniziare dalle proprie star. Rinunciai agli attori che avrei voluto dirigere, all’uso del bianco e nero e cedendo di qua e di là, lentamente, rinunciai anche a me stesso. Ero molto infelice. Anche del risultato di un paio di film girati a metà degli Anni 70, poco dopo Paper Moon. Finalmente arrivò l’amore e Vecchia America non erano due buoni film. Così mi presi 3 anni sabbatici. Tre anni per riflettere e tornare alle origini. E venne fuori Saint Jack, realizzato con pochissimi soldi.
I tre anni le servirono?
Ridiedi lustro alla mia carriera, ma soprattutto capii che dovevo fare a modo mio e non sottostare alle regole altrui. Due dei miei miglior film …E tutti risero e Saint Jack sono stati girati uno dopo l’altro con questo spirito: la ribellione al compromesso. Poi arrivò la tragedia di Dorothy e per me si spalancarono le porte dell’inferno.
Dorothy Stratten era la sua compagna. Un ex Playmate di sconvolgente bellezza che lei aveva fatto recitare accanto a Ben Gazzara e Audrey Hepburn in …E tutti risero. Un grande amore nato sul set e interrotto dal marito di Dorothy, Paul Snider, il fotografo che la uccise per gelosia il 14 agosto 1980.
Entrai in un posto buio. Tremendamente buio. Passai tre anni a scrivere su Dorothy un libro che rappresentò un aiuto e un dolore allo stesso tempo. Sentivo il dovere di scrivere. Non sapevo esattamente cosa fosse accaduto con suo marito. Cominciai a parlare con chiunque sapesse qualcosa e misi in piedi un volume che somigliava a un’inchiesta. Scoprii cose che lei mi aveva nascosto e che se avessi saputo mi avrebbero forse permesso di proteggerla.
Scrisse per arrivare alla verità?
Scrissi per lei. Alla sua morte i giornali restituirono di Dorothy un’immagine superficiale. Si ricordavano solo della coniglietta di Playboy. Volevo dire al pubblico chi fosse veramente Dorothy.
Anni dopo lei venne investito dalle critiche quando sposò la sorella di Dorothy, Louise Beatrice Stratten, una ragazza che esattamente come la sua compagna precedente era molto più giovane di lei.
Cary Grant una volta mi disse: “Ma sei matto? Non puoi andare a dire in giro che sei follemente innamorato! Smettila di dire a tutti che sei felice!” Quando gli domandai il perché, si spiegò: “Perché la gente è infelice e non ama: non potrà che giudicarti ed essere gelosa”. Ecco, mi è successo questo. Nell’amore per Louise non vedevo francamente niente di innaturale. C’era stato un naufragio: io e lei ci eravamo trovati sulla stessa zattera e ci eravamo stretti, amati e sposati. 15 anni dopo ci siamo separati, ma lei è ancora la mia migliore amica.
Nel cinema lei ha conosciuto veramente tutti. Le chiediamo qualche fotografia iniziando da Alfred Hitchkock.
Un grand’uomo. Poteva tenerti avvinto per ore su come aveva girato una scena o scelto un’inquadratura.
Jack Nicholson.
Mi piace Jack. Per Bersagli, un mio vecchio film del ’68, organizzai una proiezione privata. Sui titoli di coda, il gelo. Non fiatò nessuno. Non un commento, un applauso, una critica. Il nulla. Sa chi venne da me? Jack. Fu generoso, ne avevo bisogno.
Orson Welles.
Non era un pessimista. Era buffo. Faceva ridere. Sapeva qualcosa di ogni cosa. E aveva fascino.
Lei avrebbe dovuto concludere il suo The other side of the wind, Welles le aveva chiesto di finirlo se gli fosse accaduto qualcosa.
È vero. Ci provo da trent’anni. Sapesse le volte in cui mi hanno detto: “Iniziamo lunedì!” oppure: “Partiamo il 5 Gennaio, il 7 Marzo o il 19 aprile”. E poi nulla. Il silenzio. Adesso dovremmo cominciare veramente, il 2 novembre, proprio domani. Ma non so più se crederci.
Come mai?
Quando qualcuno deve stanziare soldi per un progetto, qualcosa va sempre storto. E la questione dei diritti è rognosa. Chi mette i soldi non vuole complicazioni. Troppe volte mi è successo di essere alla vigilia delle riprese e all’ultimo momento arrivava qualcuno che diceva: “Fermi tutti, ho io i diritti di questo film.” Magari non era vero, ma intanto la macchina si inceppava.
Si definirebbe un nostalgico?
Sono un nostalgico, sì. In Francia stanno scrivendo un libro su di me. Il titolo è: Il cinema è elegia. E secondo me è un titolo perfetto.
Ha rimpianti?
Sa come diceva Sinatra in My Way? (Bogdanovich la cantanda ) “Regrets, I’ve had a few, but then again too few to mention” – rimpianti, ne ho avuti, ma troppo pochi per ricordarli. Ecco, io non sono d’accordo. Altroché se ho dei rimpianti. Quello che non ho è la voglia di tirarli fuori. Cerco di non pensarci. Anche se dalle tre di notte, l’ora del lupo, non si scappa.