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 2015  novembre 01 Domenica calendario

Nel novembre 1915 Albert Einstein presentò all’Accademia prussiana delle scienze la teoria della relatività. Cronaca di un capolavoro in tre atti

In una lettera del 10 dicembre 1915 indirizzata all’amico Michele Besso, Einstein disse di sentirsi «elice, ma un po’ distrutto». Ne aveva tutte le ragioni: con un incredibile tour de force era riuscito in poche settimane a completare il suo capolavoro, la relatività generale, universalmente considerata la più bella teoria della fisica. «Chiunque la comprenda non può sfuggire al suo fascino», si spinse a dire lui stesso, abbandonando la consueta riservatezza, il 4 novembre di quell’anno, nella prima delle comunicazioni inviate all’Accademia Prussiana delle Scienze (ne seguirono altre tre), in cui espose la teoria nella sua forma finale.
La creazione della relatività generale fu una gigantesca impresa intellettuale, che combinò, in un modo e in una misura che non si sarebbero mai più ripetuti, intuizione fisica, potenza matematica e solidità epistemologica. Essa rappresentò il culmine di un lungo lavoro, cominciato con la formulazione della relatività ristretta nel 1905, l’annus mirabilis in cui Einstein, «esperto tecnico di terza classe» all’Ufficio Brevetti di Berna, aveva sconvolto la fisica, concependo anche la teoria dei quanti di luce (tappa decisiva per lo sviluppo della meccanica quantistica) e la teoria dei moti molecolari (che contribuì alla definitiva affermazione dell’tomismo).
La teoria del 1905 era basata su un principio di simmetria, il principio di relatività, secondo il quale le leggi di natura hanno la stessa forma per tutti gli osservatori in moto uniforme. Venivano, in tal modo, spazzati via l’etere e i concetti di movimento e di quiete assoluti. Ma la restrizione agli osservatori in moto uniforme disturbava Einstein. «Ogni mente portata alla generalizzazione – scrisse – sentirà la tentazione di azzardare il passo verso il principio generale di relatività», cioè verso un principio di invarianza delle leggi fisiche per tutti gli osservatori, indipendentemente dal loro moto, uniforme o accelerato. Ci volle quasi un decennio – costellato di idee geniali, ma anche di tentativi a vuoto e di delusioni – per raggiungere questo obiettivo.
Come ha fatto notare lo storico della scienza John Stachel, la costruzione della relatività generale è un’opera in tre atti. Il primo atto ha inizio nel 1907, quando Einstein concepisce quello che definirà poi il pensiero più felice della sua vita: l’idea che un osservatore in caduta libera non avverte alcun campo gravitazionale (perché la forza inerziale dovuta all’accelerazione del sistema annulla la gravità). In altri termini, accelerazione e gravità sono intercambiabili, nel senso che l’una simula o compensa l’altra. Questo “principio di equivalenza” mostra come l’estensione della relatività ai sistemi accelerati prenda la forma di una nuova teoria della gravitazione, e ha un notevole potere predittivo. Grazie a esso, Einstein scopre che la gravità deflette la luce. Nel 1911 quantifica l’effetto, calcolando la deviazione dei raggi luminosi provenienti da stelle lontane e “piegati” dalla gravità solare, ma, a causa dell’incompletezza della teoria, ottiene un valore sbagliato – come scoprirà in seguito (fortunatamente per lui, una spedizione organizzata per osservare il fenomeno in occasione dell’eclissi totale di Sole in Crimea nell’estate del 1914 viene bloccata dallo scoppio della Prima guerra mondiale).
Il secondo atto dell’impresa einsteiniana si svolge negli anni 1912-1913. Einstein intuisce allora il profondo legame tra gravità e geometria, e comprende che bisogna superare lo spazio-tempo piatto e statico della relatività ristretta per passare a uno spazio-tempo curvo e dinamico, un vero e proprio campo fisico – il campo gravitazionale. È un cambiamento cruciale, ontologico: da semplice palcoscenico degli eventi, lo spazio-tempo diventa attore protagonista, in dialogo con gli altri attori, la materia e la luce. Ma per dar corpo a questa idea serve una matematica più sofisticata di quella del 1905: una matematica che, in quel momento, Einstein non possiede. Di ritorno a Zurigo, dopo una parentesi a Praga, si rivolge a un suo vecchio compagno di studi, il matematico Marcel Grossmann. Questi gli consiglia di studiare la geometria di Riemann, che permette di descrivere spazi curvi con un numero qualsiasi di dimensioni, e gli segnala i lavori di due studiosi italiani, Gregorio Ricci Curbastro e Tullio Levi-Civita, che hanno sviluppato una tecnica – l’analisi tensoriale – per effettuare calcoli su uno spazio curvo. Armato di questi nuovi strumenti matematici, Einstein si mette alla ricerca dell’equazione che governa la dinamica del campo gravitazionale (cioè dello spazio-tempo) e le sue interazioni. Adotta inizialmente un approccio basato su considerazioni di carattere fisico, ma la teoria che ne viene fuori ha seri difetti ed è presto abbandonata.
Si arriva così al fatidico novembre del 1915 – il terzo e conclusivo atto. Dopo due anni di stallo, Einstein opta per una strategia di ricerca diversa, più matematica. È la scelta giusta. Nell’arco di poche settimane, con un sforzo straordinario – stimolato dalla competizione con uno dei più grandi matematici dell’epoca, David Hilbert, che ha cominciato a lavorare sullo stesso problema –, arriva alla teoria definitiva. Ne dà notizia all’Accademia berlinese in una serie di quattro comunicazioni settimanali, nell’ultima delle quali, il 25 novembre 1915, presenta l’equazione fondamentale della nuova teoria: un capolavoro di essenzialità e di eleganza, scritto nel linguaggio di Ricci e Levi-Civita. L’equazione mette in relazione la curvatura dello spazio-tempo con la densità di materia e di energia: in presenza di masse e di sorgenti di energia, lo spazio-tempo si deforma, ed è questa deformazione che chiamiamo gravità. Geometria e fisica sono dunque legate inestricabilmente e si influenzano a vicenda.
Rifacendo i calcoli della deflessione della luce sulla base della nuova teoria, Einstein ottenne un angolo doppio rispetto a quello previsto qualche anno prima. Per osservare il fenomeno si dovette però aspettare l’eclissi totale di Sole del 1919, visibile nella fascia equatoriale. Due spedizioni britanniche, organizzate dall’astrofisico Arthur Eddington, diedero il risultato tanto atteso: la piccolissima deviazione misurata era in accordo con la predizione relativistica. “Rivoluzione nella scienza”, “Newton spodestato”, “Svolta epocale”, titolarono i giornali di mezzo mondo, segnando l’inizio della fama planetaria di Einstein. Il quale fu ovviamente molto soddisfatto del risultato. Ma, com’era nel suo stile, a una studentessa che gli chiedeva come avrebbe reagito se le osservazioni avessero contraddetto la teoria, rispose semplicemente: «Mi sarebbe dispiaciuto per il buon Dio, perché la teoria è corretta».