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 2015  novembre 01 Domenica calendario

Quella volta che l’Atalanta di Domenghini vinse la Coppa Italia in nome di Papa Giovanni XXIII

L’Inter vince lo scudetto, il Milan addirittura la Coppa dei Campioni (prima italiana a riuscirci), eppure quella del 1963 è una primavera di dolore. Papa Giovanni XXIII è agonizzante, il mondo trattiene il fiato, non c’è spazio per l’allegria e la distrazione. Le prime pagine dei quotidiani, fin dagli ultimi giorni di maggio, sono dedicate alle condizioni di salute del Pontefice che, con il suo messaggio di pace, ha convinto i potenti a riporre le armi. Non ci sono speranze per lui, da mesi si conosce l’entità della malattia (un tumore allo stomaco). D’improvviso il tempo rallenta, ogni cosa perde d’importanza. Le ore sono scandite dalle preghiere dei fedeli che affollano Piazza San Pietro e guardano all’insù, nella speranza che si compia il miracolo. In Vaticano giungono i messaggi dei principali leader politici, da Kruscev a John Kennedy: la drammaticità del momento raffredda le tensioni. Venerdì 31 maggio, alle ore 22.30, la Radio Vaticana diffonde un comunicato straziante: il Papa è in agonia. Dopo un leggero miglioramento, all’alba ha avuto una crisi terribile e a nulla sono serviti gli sforzi dei medici Valdoni e Mazzoni. Nella stanza del Pontefice, molto debole ma ancora lucido fino alle sei del pomeriggio, entra il confessore che gli impartisce l’estrema unzione. «Andremo alla casa del Signore», dice poco prima di perdere conoscenza. La Curia convoca i cardinali in previsione del Conclave. La sera, verso le nove, il Papa non riconosce nemmeno i fratelli appena giunti da Sotto il Monte, il paesino in provincia di Bergamo dove Roncalli è nato nel 1881. 
LAVORO E GIOCO La stessa sera un ragazzo di ventun anni va a letto con le formiche nello stomaco: è teso, il grande giorno si avvicina. Quel ragazzo si chiama Angelo Domenghini, «Domingo» per gli amici, abita a Lallio, a pochi chilometri da Bergamo, gioca nell’Atalanta e domenica 2 giugno, a San Siro, affronterà il Torino nella finale di Coppa Italia. La tensione lo sta consumando: si allena come un matto, tira, crossa, dribbla, ma fino a che l’arbitro non fischierà l’inizio della partita non riuscirà a mettersi tranquillo. È fatto così, un fascio di nervi: spigoloso nel volto e nel carattere. Nessuno vola sulla fascia come lui, e l’Atalanta, grazie alle sgroppate di questo ragazzo, incanta. L’allenatore Tabanelli se lo coccola, e pure il presidente Turani che ha acquistato quel giovane da una società dilettantistica per 200mila lire. A scoprirne il talento è stato un prete: il parroco dell’oratorio di Verdello, don Antonio. Domenghini lavora in fabbrica, perché in famiglia oltre al padre e alla madre ci sono nove figli, e la sera va a giocare a pallone sotto il campanile della chiesa: così si costruisce il futuro. E adesso c’è la finale. Che cosa deve fare? Come deve muoversi? A chi deve dare retta? Domande che gli affollano la mente e solo a una di queste riesce a dare risposta: «Non darò retta a nessuno, farò di testa mia. Come sempre». L’istinto lo ha sempre guidato e sarà così nel giorno più importante. 
NIENTE FESTA Mentre gli italiani pensano alla salute del Papa, e mentre Domenghini si prepara alla grande sfida, nei palazzi della politica si discute di quale linea seguire. Le elezioni hanno confermato la Democrazia Cristiana come primo partito, ma in forte calo. Finisce l’egemonia della Balena Bianca e si profila l’ipotesi del centrosinistra. Il presidente della Repubblica Segni incarica Aldo Moro di formare il nuovo governo. Le trattative sono di una lentezza esasperante. Sabato 1° giugno vengono sospese le celebrazioni per l’anniversario della Repubblica previste per il giorno successivo: non è il caso di far sfilare soldati e carrarmati per le strade di Roma, quando tutti gli italiani sono in ansia per il Papa. La stessa sensibilità non la dimostra il presidente della Federcalcio Giuseppe Pasquale che non posticipa la finale di Coppa Italia (la sera di sabato 2 aprile 2005, invece, quando morì Papa Wojtila, il calcio si fermò). L’allenatore Tabanelli dice una cosa che i suoi ragazzi terranno in mente: «Quando mai ci capiterà un’altra occasione così?». Già, perché l’Atalanta è una buona squadra, ma non una grande, e arrivare in finale di Coppa Italia è un’impresa. Domenghini recepisce il messaggio: quella domenica il prato di San Siro è suo, fa impazzire i difensori del Torino, li dribbla, segna tre gol e regala all’Atalanta quello che, ancora oggi, è l’unico trofeo in bacheca. Anni dopo, quando avrà già vinto scudetti e coppe con l’Inter e con il Cagliari, ricorderà il successo del 1963 come il più bello della carriera. 
MESSAGGIO Quella notte Domenghini si addormenta felice, ed è bello immaginare che gli giunga, a mo’ di ringraziamento, una carezza speciale: quella del Papa Buono. Da bergamasco, avrebbe esultato anche lui per quella vittoria. E in quel ragazzo dalle gambe sottili, tenace e cocciuto, avrebbe riconosciuto il carattere della sua gente. L’Atalanta, alzando quella coppa al cielo, ha fatto l’ultimo regalo al «suo» Papa. Alle ore 19.49 del 3 giugno, Giovanni XXIII muore. Al suo segretario, prima di chiudere gli occhi, sussurra: «Perché piangere? È un momento di gioia. Un momento di gloria».