Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 01 Domenica calendario

Che cos’è la Maratona di New York

C’è un punto dove la maratona di New York si zittisce, sul Queensboro Bridge il pubblico scompare, non è proprio ammesso, e si sentono i passi, i respiri, i pensieri di chi corre. I frequentatori seriali chiamano questo ponte «l’infame», perché è un tratto abbandonato, solitario e infinito. Prima la città ti abbraccia e dopo c’è il mondo in strada: superati quei 1135 metri di dubbi sei in mezzo alla parata, sulla First Avenue, dentro la foto della maratona contemporanea. La festa invece della gara.
Atene ha definito il percorso, i massacranti 42 chilometri, New York in questi 45 anni ha cambiato il senso. Ha trasformato una competizione in una prova di coraggio, di solidarietà, di fantasia. Chi si iscrive stacca il biglietto per un confronto con i propri limiti. I professionisti continuano a fare il percorso di Atene, gli altri ci mettono dentro sogni, speranza, condiscono la maratona come meglio credono. E questo panino strafarcito di ambizioni, saluti, amori, scommesse, ricordi in salse ultra agre e extra dolci è ovviamente nato a New York.
Berlino e Londra copiano
Se oggi anche le altre maratone diventano happening è perché hanno dichiaratamente copiato. Nel 1979, Chris Brasher, il cofondatore della maratona di Londra, ha corso a New York. Era solo la nona edizione e la mappa si era allargata ai cinque distretti da appena tre anni. Brasher si è chiesto: «Come è che qui si corre in famiglia, nel chiasso di casa mentre da noi si respira aspettativa e tensione?». Berlino, che aveva portato la gara nella foresta per non infastidire il traffico, ha visto l’arrivo a Central Park e nel 1981 ha riportato il gruppo dentro la città divisa da un muro. New York fa da esempio, da faro, eppure resta alternativa. Diversa, unica. Al cannone del via si accende pure Frank Sinatra, la Bishop Loughlin High School band suona «Gonna Fly Now» da Rocky e lo fa dal 1979, da prima che arrivassero gli sponsor, da molto prima dei soldi. Certo, pure quelli hanno contribuito a colorare la città solo che per una volta non hanno deciso. Allo start del debutto datato 1970 il premio era una coppa riciclata dal bowling, oggi si vincono 100 mila dollari con altri 50 mila di bonus che ballano a seconda del tempo. Assegni che ingrassano eppure non determinano il carattere della sfida.
«Corro perché sono guarito»
Quando ancora le gambe girano veloci ci sono già 26 tonnellate di vestiti per terra, sono resti abbandonati da chi è partito per un viaggio senza sapere che la valigia non serviva. Le foto di inizio Anni Settanta e quelle del 2014 non sono poi così diverse, non c’erano le scarpe con il Gps o il materiale traspirante però la differenza estetica è minima, alla fine sono canottiere e pantaloncini che si agitano. Il resto, il superfluo, viene raccolto dai volontari e destinato in beneficenza. La corsa è essenziale, New York di più: non vive nell’abbigliamento super tecnologico di altri sport, non cresce con i milioni che girano intorno a questi 42 chilometri. Sta nella voglia di farsi sentire, di partecipare, in chi trasferisce casa all’esterno per guardare le storie di chi passa. Molti se le scrivono sul pettorale, «perché sono guarito», «perché sono sposato», «per raccogliere fondi», «per cambiare». E se ci aggiungono il nome sono certi che sarà gridato dentro il rave più salutista che esista. Dentro la festa che si scatena oggi, come ogni anno, e che non ha uguali e non ha segreti. Coinvolge, avvolge, sostiene, urla. Si scatena. Un rito collettivo che funziona persino se stai fermo a guardare.