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 2015  novembre 01 Domenica calendario

Un quintale d’uva per fare due litri d’aceto. Viaggio nella Consorteria di Modena dove si alleva il balsamico

«Quando sei in acetaia non hai mai la sensazione di essere solo: percepisci sempre la presenza di chi ha lavorato quelle botti prima di te e senti il dovere di condurre quel luogo verso le prossime generazioni».
Si, perché un’acetaia non si gestisce ma si conduce, l’aceto non si produce ma si alleva, le botticelle non si custodiscono ma si tengono a balia. Anche le parole fanno la differenza quando ci si erge a baluardo di una cultura secolare, e lo sa bene Maurizio Fini, 66 anni, maestro assaggiatore e conduttore dell’acetaia della Consorteria dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena a Spilamberto.
«L’associazione è nata nel 1967 per proteggere e tutelare questo straordinario prodotto. Ma non solo: con l’organizzazione di un ambitissimo palio annuale si ha la possibilità di verificare la qualità dell’aceto prodotto nel territorio. Essere qui è un grande privilegio, perché si ha l’opportunità di convivere quotidianamente con l’eccellenza: è un po’ come allenare la Nazionale». Il primo incontro con le botti Maurizio lo fa da bambino: il nonno produceva aceto di vino, ma in una stanza, le cui chiavi teneva nascoste nel seno la nonna, c’era anche il luogo dove nasceva l’«aceto dei signori», il balsamico. Ed è proprio aiutando l’anziano capofamiglia, mutilato di guerra, che il fanciullo apprende le nozioni basilari, sperimenta l’arte del travaso e del rincalzo, prende una grossolana confidenza con i sapori, i profumi e i colori.
La svolta della vita
«Di professione ho fatto tutt’altro, poiché mi occupavo di stampa fotografica, ma ad un certo punto mi sono reso conto che avevo acquisito competenze che non sapevo di possedere, era come se fossero innate. Così, dal 1971 ho iniziato a frequentare le prime batterie di botti: errori ed esperimenti, studio e valorizzazione dei saperi antichi, centinaia di assaggi e confronto con gli altri maestri, fino a mettermi a disposizione della Consorteria». Le uve, obbligatoriamente del modenese: il Trebbiano per il profumo, il Lambrusco per la sua acidità e l’Ancellotta, per l’aroma vellutato. La pigiatura, lenta e delicata. La cottura del mosto: rigorosamente all’aperto per garantire l’evaporazione, sul fuoco a legna e per 10 massimo 12 ore ad una temperatura attorno agli 80 gradi. Poi la fermentazione alcolica e successivamente quella acetica. Prima di dare il via al ciclo di maturazione e invecchiamento dentro alla batteria, una serie di barili a grandezza decrescente di legni diversi, dalla quercia al ginepro, passando per il frassino, il castagno e rovere, ordinatamente disposti nel solaio. Ed è lì, grazie all’escursione termica guidata dal ciclo delle stagioni, che scienza, natura e mano dell’uomo si fondono per dare vita al balsamico.
Dodici anni in viaggio
Un viaggio lungo almeno 12 anni per ricavare un prodotto affinato. Fino a 25 anni per arrivare al prelibato extravecchio. Sapendo che da un quintale d’uva non si ricaveranno più di due litri di aceto. «Noi non abbiamo fretta, il nostro compito è aspettare: il mosto cotto, il tempo e la sapienza sono i tre ingredienti basilari di questa miracolosa ricetta. Quello che deve fare il conducente è entrare in simbiosi con la batteria, muovendosi come un equilibrista per mantenere il giusto rapporto tra gradazione zuccherina e acidità. E, come vuole la tradizione, quando le prime gemme spuntano sugli alberi e dalle scale che portano al sottotetto scende l’odore dell’aceto che sta riprendendo vita, è il momento di prelevare il prodotto maturo, di travasare da una botticella e l’altra e di riportare a livello tutti i barili con un attento rabbocco. Sapendo che vedrai tra anni i risultati nei tuoi gesti, e che ogni tuo errore verrà percepito con tutti i sensi». Una valutazione visiva, per decretarne densità, colore e limpidezza. Una descrizione olfattiva, per definirne franchezza, finezza, persistenza e acidità. Un giudizio gustativo, per classificare pienezza, intensità, sapore, armonia e acidità. Sono questi tutti i parametri padroneggiati dai 150 maestri, 120 assaggiatori e 80 allievi della Consorteria, paladini del «Tradizionale», che poco o nulla a che fare con l’aceto balsamico di Modena Igp commercializzato in larga scala.
Tradizionale, non Igp
«L’aceto tradizionale è inconfondibile. Una candela, per guardare controluce: mi basta questo per capirne la densità, il colore e la limpidezza. Poi il naso, con cui sperare nell’assoluta assenza di difetti. E infine qualche goccia lasciata cadere sulla lingua, schiacciata contro il palato e inghiottita per farsi avvolgere dal ritorno del retrogusto: un piacere completo, totalizzante, la somma di infinite sensazioni che si orchestrano in un unico concerto. Ecco, questo è il mio mondo. È il mondo che voglio difendere e quello che voglio tramandare ai miei nipoti. E proprio per questo appena nati hanno ricevuto in dono la loro batteria». E non è un caso se tra le botti della Consorteria, luogo di culto e di cultura per gli appassionati del balsamico, fanno capolino anche quella dell’osteria «La Francescana» di Massimo Bottura: lo chef pluristellato ha affidato la conduzione dei suoi legni a Maurizio e al fedele collega Dino Stefani, come segno di totale fiducia e di intrinseco legame con la propria terra. «Siamo noi che apparteniamo all’acetaia, non è l’acetaia che appartiene a noi: ricordarci di questo ogni giorno è l’unico modo per non tradire i nostri avi e lasciare un’eredità ai nostri discendenti».