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 2015  novembre 01 Domenica calendario

In India le vacche sacre degli induisti mettono a rischio la democrazia

Agenti di polizia fanno irruzione nelle cucine di un ristorante per verificare se vi si cucina un alimento proibito. Siamo forse nella Ginevra di Calvino, un regime di «dittatura contro il peccato» in cui si reprimeva ogni segno di edonismo non solo sessuale, ma anche estetico e gastronomico? O forse nell’Arabia Saudita contemporanea, dove gli agenti del «Comitato per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio» sorvegliano e colpiscono i comportamenti devianti dei sudditi del regno?
E invece no. Siamo nell’India contemporanea, nell’India democratica. È accaduto la settimana scorsa a New Delhi, dove l’operazione di polizia ha interessato la sede di rappresentanza dello Stato del Kerala nella capitale federale.
Gli agenti intervenivano dietro segnalazione di uno dei movimenti dell’induismo radicale, l’Hindu Sena, secondo cui nel ristorante della «Kerala House» si sarebbe servita carne bovina.
Niente di nuovo, si potrebbe dire. Sono molti gli Stati indiani in cui la macellazione dei bovini è proibita, e fra l’altro la stessa Costituzione indiana, al suo articolo 48, stabilisce che lo Stato, nel quadro dell’impegno per sviluppare agricoltura e allevamento, «prenderà misure tese a proibire la macellazione di vacche e vitelli». Finora tuttavia questa proibizione risultava tutt’altro che universale, con Stati (fra cui, incidentalmente, il Kerala, che oggi protesta per l’incursione nella sua sede della capitale) e riferita alla macellazione piuttosto che al consumo. In alcuni Stati, infatti, la vendita di carne bovina è libera purché la macellazione sia avvenuta altrove, mentre spesso nei menù dei ristoranti il manzo viene presentato, spesso in modo fraudolento, come bufalo – che non rientra nella proibizione. Ma soprattutto proibizione teorica e prassi tollerante – tipiche di un Paese così vasto, variegato, plurale – rendevano finora la questione più simbolica e teorica che pratica.
Da quando invece Narendra Modi si è insediato nella carica di Primo ministro le cose sono profondamente cambiate. Modi non è solamente leader del Bjp, partito di centro-destra, ma milita fin dall’adolescenza in un movimento integralista, l’Rss, la cui ideologia, l’«Hindutva», si basa sulla pretesa non solo di imporre al Paese l’egemonia politica dell’induismo, ma anche di uniformarlo ai canoni etici e ai precetti, comprese le proibizioni alimentari, della tradizione indù.
Gli equilibri, fatti di decentramento e tolleranza, che hanno finora permesso la continuazione e la vitalità della straordinaria scommessa della democrazia indiana, risultano oggi minacciati da una spinta all’uniformità che può solo essere portata avanti con l’autoritarismo e la repressione. Il Chief Minister (governatore) dello Stato di Haryana, lo ha detto senza equivoci: «I musulmani possono continuare a vivere in questo Paese, ma dovranno rinunciare a mangiare carne bovina».
Il Primo ministro Modi evita di usare linguaggi analoghi, e continua invece a focalizzarsi sull’economia, contando sull’appoggio della classe imprenditoriale, frustrata dalla inettitudine politica degli ultimi governi del Partito del Congresso. Ma la sua presenza al vertice del Paese ha dato un segnale non equivoco ai militanti, anche quelli più violenti ed estremisti. Si sentono autorizzati, ad esempio, a condurre campagne di mobilitazione per esigere di estendere la proibizione della macellazione dei bovini agli Stati non-proibizionisti, e soprattutto ad esasperare la questione facendo montare il fanatismo popolare. Le conseguenze sono evidenti, e tragiche. Il mese scorso un musulmano è stato linciato in un villaggio a pochi chilometri di distanza dalla capitale perché qualcuno ha denunciato che nel suo frigorifero c’era carne di vacca. Un’atrocità che Modi ha tardato a condannare, e che evidentemente vorrebbe minimizzare, mentre episodi analoghi di violenza omicida vengono segnalati in altre parti del Paese.
L’offensiva induista si estende anche ad altri campi, come la campagna per la «conversione di ritorno» all’induismo che prende di mira musulmani e cristiani. Per i radicali dell’Hindutva è oggi possibile ristabilire, con una miscela di incentivi e pressioni, l’omogeneità religiosa indiana – secondo loro storicamente spezzata dalla violenza degli invasori musulmani e successivamente dal proselitismo, in un contesto coloniale, dei missionari cristiani. Si tratta di un disegno basato, come sempre accade nelle narrazioni integriste, su una memoria storica più mitica che reale, dato che ad esempio l’islam si è diffuso in India a partire dai porti del Sud per l’influenza dei mercanti arabi prima che dal Nord del Paese come effetto delle invasioni musulmane. Inoltre la versione monolitica dell’induismo proposta (e imposta) dai militanti integristi dell’Hindutva non corrisponde alla verità storica di una spiritualità variegata e plurale capace di abbracciare edonismo e ascetismo, tradizioni locali fra le più varie, forti differenze nel rituale e nella mitologia. L’induismo dell’Rss, oggi in fase di offensiva politico-ideologica, è invece una versione che viene, paradossalmente, dalla rivisitazione ottocentesca del colonialismo britannico, da una sorta di assimilazione con le religioni abramiche: lo dimostra la proposta di alcuni intellettuali induisti secondo cui, al posto della grande ricchezza di testi che caratterizzano la tradizione indù, andrebbe privilegiato e promosso dal punto di vista dottrinale e pedagogico un solo «Libro Sacro», il Bhagavad Gita.
Proprio perché questa offensiva politica e di potere s’intreccia con dati che si riferiscono alla storia e alle idee, lo scontro vede oggi in prima linea il mondo intellettuale. Storici, scrittori, artisti, gente del cinema, si stanno mobilitando per opporsi a una deriva che minaccia di distruggere la grande creazione politica di Gandhi e Nehru: l’India plurale, democratica, profondamente religiosa ma laica.
La più recente presa di posizione è quella di oltre cento scienziati, che hanno denunciato «la promozione di un pensiero irrazionale e settario da parte di importanti esponenti del governo». Lo scontro, in India, sta diventando sempre più aspro, con episodi di squadrismo induista contro esponenti del pensiero laico e liberale, e anche casi di omicidio politico.
I democratici indiani, e non solo gli intellettuali, temono oggi che l’India – come risultato dell’offensiva politico-culturale dell’induismo integrista – diventi sempre più simile a un «Pakistan indù», ovvero un Paese dove la presenza di una religione di Stato rende impossibile un autentico pluralismo – anzi, la stessa democrazia.