Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 01 Domenica calendario

Parla Sam Mendes, regista di American Beauty e dell’ultimo James Bond (Spectre)

Il perfetto James Bond ha il corpo scolpito di Daniel Craig e la mente raffinata di Sam Mendes. Il sodalizio tra divo e cineasta ha dato vita all’incarnazione più riuscita dell’agente di sua Maestà dai tempi di Sean Connery. Una resurrezione della saga avviata con Skyfall (2012) e proseguita ora con Spectre (nella sale italiane da giovedì). Al centro della cornice obbligata di esplosioni, donne sexy, combattimenti letali, inseguimenti e micidiali congegni, c’è un lavoro d’autore per stile e introspezione del personaggio. L’agente creato da Ian Fleming è costretto a confrontarsi con il passato, l’età che avanza, il mondo che cambia. Tracciare un bilancio di vita, compiere delle scelte. A raccontarcene la trasformazione è lo stesso artefice.
Pienotto e molto casual, almeno quanto Craig è nervoso e assai griffato, Mendes, cinquant’anni, ci accoglie in scarpe da ginnastica e maglione sformato nel salone Diocleziano dell’Hotel St. Regis. È a Roma reduce dalla tradizionale anteprima londinese alla presenza di Sua Maestà. Impossibile conoscere il giudizio di Elisabetta sul film, ancora tutto concentrato sul suo lavoro il regista inglese non sembra cogliere.
Giornata complicata, mister Mendes? Come è andata con la regina?
«Sì, in verità mi sento piuttosto stanco, ma anche orgoglioso, direi sollevato. Anche se ho finito il film dieci giorni fa e ancora non riesco a vederlo con distacco».
E Bond, il suo Bond: riesce ad avere il sufficiente distacco per vedere come lo ha ridisegnato?
«È che la gente dimentica che nelle pagine di Ian Fleming Bond non è l’eroe ma l’antieroe. Uno capace di azioni orrende. Uno che beve troppo, fuma troppo, dorme con troppe donne. Uno che non rispetta l’autorità, un misogino. E, tuttavia anche uno capace di grandezza, perché rappresenta un certo tipo di individualismo, un rifiuto a conformarsi. Questa è stata la mia chiave di accesso. Quando avevo quindici anni pensavo che Bond fosse cool, poi ho cambiato idea. Sentivo che nel tempo 007 era diventato qualcos’altro, con Roger Moore, Timothy Dalton e Pierce Brosnan. Non brutto, ma diverso: leggero, con una battuta pronta per il personaggio e una per il pubblico. Quando è arrivato Daniel (Craig, ndr ) sono finiti gli ammiccamenti. Ha restituito a Bond la complessità che gli aveva dato Fleming».
Poi però sarà stato anche lei a spingerlo...
«Sì, chiaro. Sul set di Skyfall Daniel era sconcertato. Lo bombardavo: perché Bond è fatto in quel modo? Com’era da bambino? Cosa ha fatto di lui un assassino e un seduttore seriale?».
E questo è il suo Bond.
«Mio, di Ian Fleming e di Daniel Craig. Il rischio ce l’eravamo già preso girando Skyfall.
Non sapevamo come il pubblico avrebbe accolto la morte di M., e tantomeno la notizia che il tempo passa anche per il super agente segreto. Tutti sono lì a dirgli che è vecchio, debole, stanco. Temevamo la fuga: “Ehi, vogliamo fantasy, vogliamo azione, non un eroe che invecchia”. Invece è andata».
Lei volle Craig in un altro suo film, “Era mio padre”, malgrado un provino disastroso. È vero che poi è stato lui a tirarla dentro la saga Bond?
«È vero, è stato tutto molto casuale. Una sera vado alla festa di Hugh Jackman per lo spettacolo che fa a Broadway con Daniel. Ci beviamo un bicchiere e gli chiedo come va con Bond. Daniel mi racconta che è deluso da Quantum of Solace (regia di Marc Forster, ndr ). Poi mi guarda: “Perché non lo fai tu?”».
Ed ecco che arriva il Bond d’autore.
«La mia scena preferita in Spectre è la più minimalista. Quando Daniel e Léa Seydoux trovano la stanza nascosta di Mister White. Lei scopre la vita segreta del padre, lui il videotape con l’interrogatorio della donna che ha amato. Entrambi si confrontano con il passato. Prima che ricomincino le esplosioni, si parla di padri e figlie, amore».
In un momento in cui i nemici globali sono l’Is, Al Qaeda, i Talebani lei invece sceglie i cattivi all’interno delle società occidentali.
«Sarebbe stato troppo facile buttarla sul terrorismo. Perché un cattivo sia coinvolgente ci deve essere una motivazione personale: Javier Bardem lottava con Craig per la “madre” Judi Dench, Christoph Waltz è il fratellastro spodestato che cerca vendetta. Poi, certo, sullo sfondo, ci sono anche le mie idee sul mondo in cui vivo. Skyfall aveva dietro le quinte Julian Assange e il crimine informatico. Stavolta c’è Edward Snowden, il tema della sorveglianza, l’erosione delle libertà civili. Nei vecchi film di Bond, era chiaro che lavorava per i buoni: tale era considerato l’MI6 in piena Guerra fredda. Oggi la gente pensa che gli spiati siamo noi. E sono piuttosto orgoglioso di essere riuscito a contrabbandare in uno 007 qualche opinione da uomo di sinistra».
“Spectre” è il primo Bond ambientato a Roma. Un set complicato.
«Il lavoro su un set di Bond è sempre una prova di alta ingegneria. Per me resta il dato di partenza, ma diciamo che spesso in film come questi la storia è l’ultima preoccupazione».
Che Roma cercava nei suoi sopralluoghi?
«Non volevo qualcosa di grazioso, ma di potente. Le dimensioni dei palazzi, la vastità delle strade che ricordassero il retaggio imperiale. Poi l’ho filmata dove era meno calda e romantica, ho scelto i luoghi dell’architettura mussoliniana, e ho cercato la città notturna, le strade deserte, il vuoto. Alle tre di notte tutto era bello, perfetto. E lo so che sembra che siamo stati noi a pulire le strade di Roma, ma in realtà posso assicurarvi che sono piuttosto pulite alle quattro del mattino».
Com’è andata con la burocrazia?
«Ho la fortuna di non dovermi occupare dei dettagli pratici. Chiedo e finché non mi dicono “non si può” vado avanti. Abbiamo evitato un paio di luoghi storici perché le acrobazie ravvicinate rischiavano di danneggiarli. Ma sono rimasto sorpreso e felice per la collaborazione di autorità e cittadini. Ogni notte pensavo che a un certo punto si sarebbe aperta una finestra e qualcuno avrebbe gridato: “Finitela con questo baccano!”. E invece la gente si fermava a guardare. Bond è un mito contemporaneo, c’è una specie di orgoglio nel farne parte insieme alla propria città. Perciò dopo l’apertura a Londra siamo venuti a Roma. Ora il film è vostro».
Aveva visto la Roma de “La grande bellezza”?
«Questa città ha avuto molte incarnazioni, da Fellini a Sorrentino, la sua bellezza la conosciamo. Stavolta però mi pare di averne fatto un personaggio diverso e di cui vado orgoglioso».
Ha voluto Monica Bellucci e le ha chiesto di essere una Bond lady.
«A Hitchcock chiedevano perché prendesse sempre Cary Grant: “Perché non mi servono cinque minuti per spiegare chi è, ti porta subito dentro la storia”. Nei film di Bond non hai tempo per spiegare al pubblico i personaggi. Devi sentirli ancor prima che parlino. Monica è una genuina e contemporanea divinità dello schermo. Ce ne sono poche come lei».
La saga di Bond si distacca parecchio dai suoi film precedenti: “American Beauty” (1999), “Era mio padre” (2002), “Jarhead” (2005), “Revolutionary Road” (2008)...
«Sì, tra i miei film Skyfall è stato il primo che i miei figli hanno potuto vedere. Di solito mentre lavoro penso a cosa diranno gli amici. È stato importante tener presente cosa avrebbero pensato i miei figli».
Quando ha capito che voleva fare il regista?
«Da ragazzino, sono cresciuto divorando libri e guardando le commedie televisive degli anni Settanta».
La scena perfetta del suo cinema?
«In American Beauty, quella con il sacchetto di plastica che si muove nel vento insieme alle giovani vite. Non è solo questione di musica, fotografia, c’è qualcosa che va oltre: succede che due più due fa cinque. Sembra pretenzioso dirlo da parte mia. Ma un artista vive nella ricerca di quei momenti».