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 2015  novembre 01 Domenica calendario

Le donne e la maratona di New York

NEW YORK.
Oggi si corre a New York. Ma in quella domenica di autunno del ‘72 si sedettero a terra in sei. Tre anni prima John Lennon e Yoko Ono avevano protestato contro la guerra con un bed-in. Loro invece scelsero un sit- in six. A Central Park erano in duecentosettantotto alla partenza della maratona, bastava un dollaro per l’iscrizione, ora invece duecentocinquantacinque. Cadevano le foglie, ma non le discriminazioni. La Federazione americana di atletica sconsigliava e vietava alle donne di correre lunghe distanze. «Causa infertilità». Sei anni prima a Boston il direttore di gara si era avventato in malo modo su una studentessa universitaria, Kathrine Switzer, che aveva osato mischiarsi nella gara. Via, fuori, sciò. Si vergognasse, la maratona non era roba per ragazze. Solo alcune potevano, ma non insieme a maschi, e in separata sede, presentando credenziali. Le donne erano inferiori, non dovevano pretendere niente, nemmeno di avere un numero. Corressero sì, ma nell’invisibilità. Facendo cornice. Ma sulla 64esima strada, a Central Park, dove c’era lo striscione della partenza, sei di loro decisero che ne avevano abbastanza. E nacque il primo sit-in sportivo mai realizzato. Non si conoscevano bene: una cinque mesi prima aveva vinto la maratona di Boston, un’altra non aveva mai corso. Avevano tra i venti e i trent’anni, non erano né sovversive, né ribelli. Ma non ne potevano più dei divieti. Cinque venivano da Manhattan e Long Island, la sesta, diciassette anni, si era appena iscritta al college. Lo starter sparò, ma loro non si mossero. Gloria Steinem a luglio aveva appena lanciato Ms, la rivista femminista, a marzo era stata approvato al Senato, sotto la spinta di Betty Friedan, la legge per eguali diritti. Allora i college offrivano borse di studio sportive solo agli uomini. Con la scusa che molte discipline rovinavano la femminilità: grugnire e sudare non era appropriato. Neil Jackson, direttore del programma della Federazione americana, l’aveva giurato: «Non autorizzerò mai la maratona femminile». Alle gare le donne dovevano andare accompagnate da un tutore, che doveva garantire per loro, povere bambine incoscienti.
Nel ’71 Nina Kuscsik, quando ottenne la prima iscrizione, era madre di tre figli, tutti sotto i sei anni. «Avrei avuto bisogno di una baby-sitter, non di un accompagnatore». Aveva ventotto anni nel ‘67 quando facendo chili di bucati in lavanderia le era caduto l’occhio su un libro che costava appena un dollaro: Jogging di Bill Bowerman. Le fotografie mostravano l’attività di persone normali. Nina pensò: «Se corrono questi posso farlo anch’io». Era incinta di sei settimane, ma ci provò, e non smise fino al terzo mese. Il resto ce lo racconta lei, in un caffè non lontano da Central Park alla vigilia della maratona 2015: «Quando nacque Timothy, il mio ultimo figlio, mi misi a correre attorno a casa. Così se i bambini piangevano, potevo sentirli. Sei giri erano un miglio. Poi mi allargai al vicinato, ma c’era sempre qualche pattuglia della polizia che mi fermava. A quei tempi se gli agenti vedevano una donna correre per strada era una ladra che scappava». Nina è del ‘39. Oggi ha settantasei anni, va in bici e cammina per otto ore a settimana. È lei che guidò la protesta in quel sit-in, lei che convinse il mondo sportivo a far entrare la maratona nel programma olimpico (esordio a Los Angeles 84).
Non era una politica, non si definiva femminista, ma si chiedeva: perché noi non possiamo? Perché ci vietano le corse? «Ero cresciuta a Brooklyn, per strada, giocavo con i ragazzi, pattinavo, andavo al lavoro in bici per risparmiare sul biglietto della metropolitana, ero infermiera all’ospedale Mount Sinai, non mi tiravo mai indietro. Quando Bannister, nel ‘54, primo al mondo, era sceso sotto i 4’ nel miglio, avevo scavalcato la recinzione di una pista e avevo provato anch’io. Allora il jogging non era di moda. Correvo attorno allo Yankee Stadium, ma spesso mi tiravano bottiglie e non c’erano né spogliatoi né toilette per donne. Nel ’69 con mio marito andai a correre a Boston, da clandestina. Me ne stetti nascosta, per non farmi riconoscere, agli altri millecentocinquantadue dettero il tempo cronometrico, a me no, non esistevo». Nel ‘72 la maratona di Boston aprì alle donne. Kuscsik si iscrisse con altre sette, compresa la diciassettenne Pat Barrett, da Spring Lake, New Jersey, che studiava dalle suore. Doveva essere una prova generale di solidarietà femminile. Nina vinse in 3’10”26, la prima vincitrice ufficiale di Boston, la Barrett arrivò trenta minuti dietro. Ma le donne continuavano a restare ai bordi e a essere poche. C’era Liz Franceschini che lavorava da Tiffany e che nei weekend correva regolarmente con il marito, c’era Lynn Blackstone, che non voleva lasciare solo il fidanzato, uno dei suoi posti preferiti era il Reservoir, a nord di Central Park, che Dustin Hoffman renderà famoso ne Il Maratoneta; e c’era Jane Muhrcke, tre figli, che un po’ correva e un po’ teneva i bambini delle altre. Un piccolo gruppo e quarantadue chilometri e mezzo di strada, cementata di diffidenza. Ma a New York la corsa stava crescendo e Fred Lebow, che stava organizzando la terza edizione, era collaborativo, anche perché aveva bisogno della partecipazione di tutti. Era tempo di uscire allo scoperto, di non essere più discriminate.
Nina era la più arrabbiata, un anno prima era anche andata al congresso dell’AAU (Amateur Athletic Union) per far cancellare il divieto che impediva alle donne di correre le lunghe distanze. Non era vero che facesse male alla salute. Lei era appena scesa sotto le tre ore e era ancora viva. «Ottenni un compromesso. Alcune donne potevano correre la maratona. Ma che significava alcune? Bisognava dimostrare di saper reggere la distanza. Agli uomini non era richiesto, a noi sì. Io gareggiavo con i jeans corti e la camicia, altro materiale non avevo». Era tempo di uscire allo scoperto, ma non c’era un piano, se non quello di fare qualcosa. Nina Kuscsik convinse le altre, Lynn Blackstone, Liz Franceschini e Jane Muhrcke a iscriversi, anche se la distanza non era alla loro portata. Non dovevano finire la gara, ma pretendere di iniziarla. Bisognava fare gruppo. Arrivò anche Cathy Miller, fidanzata di un maratoneta, e Pat Barrett, ora fresca universitaria, che si fece accompagnare da amici. Nina pensò a una protesta: «Non so a chi venne in mente di fare dei cartelli, ma mezz’ora prima della gara ci mettemmo a scrivere delle frasi contro la federazione: “Sveglia, siamo nel ’72”, “Ingiustizia”. Gli uomini sorridevano, si divertivano, eravamo un simpatico intralcio. In sessanta firmarono anche la nostra petizione: vogliamo correre con la stessa partenza, traguardo maschile. La nostra guerra non era il Vietnam, ma la discriminazione in patria. Ci sedemmo a terra, occupammo la strada, lo starter sparò invano». Patrick Burns, un fotografo del New York Times che non si era mai perso la storia, dalla festa per la fine della guerra alla parata per la conquista della Luna, scattò. La foto fece il giro dell’America. Chi erano quelle rivoluzionarie così casalinghe? Blackstone era vestita come per un picnic, Muhrcke si era messa la maglietta di Superman, Nina aveva una bandana. L’unica delle sei che si nasconde il viso è Barrett, che guarda a terra: «Ero la più giovane, avevo quattordici anni meno delle altre e avevo paura che me la facessero pagare». Alle 11.10 la corsa maschile partì, a quel punto le donne si alzarono e si misero a correre. Muhrcke, Blackstone e Franceschini abbandonarono poco dopo, Miller anche. Kuscsik e Barrett invece si fecero tutti i quattro giri e mezzo del parco: arrivò prima Nina in 3h 19’. Almeno così pensava. Invece le furono aggiunti i 10 minuti del sit-in, come a dire: puoi anche correre con gli uomini, ma noi ti addebitiamo un’altra partenza, per noi non hai diritto di mischiarti. Ma non avevano fatto i conti con la testardaggine di questa madre con tre figli. «Andai fino in Senato per sostenere la nostra libertà, feci approvare nel ’79 la risoluzione 308 per fare in modo che la maratona nell’84 entrasse nel programma olimpico. A tutte quelle che oggi partecipano alla gara vorrei dire: fermatevi un attimo in nostro onore». Rosa Parks l’aveva detto bene: «C’è gente che resta seduta perché altri possano alzarsi in piedi».