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 2015  novembre 01 Domenica calendario

Si vota in Turchia. Erdogan: «La stabilità sono io»

DALLA NOSTRA INVIATA
ISTANBUL «Fareste meglio a occuparvi delle elezioni nei vostri Paesi»: a poche ore dalla chiusura della campagna elettorale, Recep Tayyip Erdogan, 62 anni, ha rimbalzato così le critiche della stampa estera e le preoccupazioni degli analisti e degli osservatori internazionali, che sospetta in blocco di oscure connivenze con «una mente suprema», diabolica e ostile a lui e al suo partito, l’Akp. Come presidente della Repubblica, al di sopra delle parti, Erdogan non dovrebbe intervenire nella campagna elettorale, ma nelle ultime settimane la sua presenza sugli schermi televisivi statali è dilagata, pari quasi a quella del suo partito, rispettivamente 29 e 30 ore in 25 giorni, mentre agli avversari sono rimasti i ritagli di tempo: 5 ore ai repubblicani del Chp, 70 minuti ai nazionalisti dell’Mhp, 18 minuti a quei «rompiscatole» dei filocurdi dell’Hdp che, da giugno, gli rompono le uova nel paniere.
La partita è troppo importante perché il Sultano la lasci giocare ai suoi gregari, cominciando da Ahmet Davutoglu, «il primo ministro stagista», come è beffardamente definito da internauti impudenti il candidato ufficiale del partito islamico della Giustizia e dello Sviluppo. Dai 175 mila seggi turchi, questo pomeriggio, non uscirà soltanto un verdetto sui precari equilibri interni del Paese, ma sul futuro di tutta la regione: questione ben chiara nelle cancellerie europee, alla Casa Bianca come al Cremlino. Chi governerà la Turchia nei prossimi quattro anni dovrà, innanzitutto, riuscire a restare in sella a una nazione divisa, sempre più irrequieta e insofferente; e, nello stesso tempo, pilotare con mano ferma i compiti militari e politici che il resto del mondo si attende da Ankara, spesso a dispetto anche degli umori popolari.
Il prezzo della stabilità
Sarà una responsabilità, ma anche una grande fonte di potere, che Erdogan non intende cedere o delegare a nessuno. «La stabilità sono io – ha messo in chiaro Erdogan con Angela Merkel, venuta a visitarlo un paio di settimane fa —. Io e soltanto io». Forse le parole rivolte alla cancelliera tedesca non erano esattamente queste, ma il senso, sì: solamente un governo monocolore può reggere il timone della barca nel mare in tempesta, non certo il caos di una cogestione in cabina di comando. Ed è meglio che la barca non si rovesci, anche per la tranquillità dell’Europa dove potrebbero approdare in massa buona parte dei 2 milioni e 138.977 rifugiati siriani ospitati dalla Turchia a un prezzo quasi insostenibile per le sue casse: 8 miliardi di dollari in poco più di 4 anni. All’Unione Europea – questo il pensiero che corre tra le cancellerie – non conviene tirare troppo la corda su «quisquilie» come la democrazia o la libertà di stampa, se alla Germania 125 mila profughi sembrano già troppi, o alla Serbia, 109 mila, o alla Svezia, 83 mila, o all’Italia, 2.200.
La scommessa sbagliata
E Bruxelles pensi piuttosto a dividere le spese. Neppure Erdogan, sui conti in tasca agli altri, si è dimostrato molto forte: «Sulle primavere arabe, anzi, ha proprio sbagliato – riflette il professore di Relazioni Internazionali all’Università Bilgi di Istanbul, Ilter Turan —. Ha pensato che i cambiamenti in Egitto o in Siria fossero irreversibili e ha preso posizione contro Assad, con il quale aveva buone relazioni. O ha accolto gli oppositori del regime iracheno di al-Maliki. La Turchia si è intromessa in conflitti interni di altri Paesi. Una scelta pericolosa, che non ha affatto rafforzato il suo ruolo strategico nella regione».
Neanche il legame con Mosca è solido: «Con la Russia c’è un rapporto ambivalente di dipendenza reciproca ma anche di divergenza, soprattutto per quanto riguarda la lettura della guerra in Siria. Erdogan e Putin hanno in comune soprattutto un’idea di governo», valuta il docente.
L’Occidente
L’Isis, la lotta al terrorismo, la questione curda, l’emergenza degli sfollati di guerra: non sono temi che riguardano l’Occidente? «Sì, ma non per questo la Turchia assumerà una posizione di potere permanente. Serve nei negoziati, è un fatto di cooperazione internazionale. L’Europa non considera la Turchia una parte inseparabile, accusa la deriva islamista del governo, ma non ha fatto molto per fermarla. Chiedete a Angela Merkel o a Nicolas Sarkozy», suggerisce il professor Turan.