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 2015  ottobre 13 Martedì calendario

Le inquietudini di Emmanuelle Béart, la militante

«Perché dopo Mission: Impossible ho detto no a Hollywood? Ero giovane, avevo appena avuto Yohan (il figlio nato nel 1996 dal suo legame col musicista David Moreau, ndr ), quel set mi aprì molte porte, mi ero divertita a lavorare con Brian De Palma e Tom Cruise. Ma feci altre scelte, non sopportavo il circo di impegni per la promozione del film…». Emmanuelle Béart è in Italia per l’unica data, sabato prossimo allo Storchi di Modena, di Répétition, testo corale di Pascal Rambert che racconta l’implosione, in sala prove, dei quattro attori di una compagnia. A turno diranno la loro sulla vita, l’amore, l’amicizia... «Ma quello di cui il pubblico sente parlare, attraverso i personaggi sul palco, potrebbe essere più in generale il collasso dei rapporti non solo di coppia... Il testo di Pascal è aperto a tutte le interpretazioni» spiega l’attrice. In scena nell’ambito di Vie Festival, la pièce, molto applaudita al Festival d’Automne di Parigi, sarà poi prodotta in versione italiana da ERT.
Rimpiange il no al cinema americano, oggi? Sembra pensosa, poi risponde: «Forse, non so. Ma ho 52 anni, sono andata oltre, mi interessano altre cose». L’impegno civile, ad esempio. Alla diva non mancano né fascino né audacia. Oltre a essere stata la musa di alcuni tra i più grandi registi francesi – da Rivette a Sautet, da Ozon a Chabrol —, negli anni Novanta si è distinta per il suo attivismo in favore dei più deboli. Nella Francia del multiculturalismo è scesa in piazza per i sans papier (una scelta di campo che le costò la rottura di un contratto milionario con Dior, di cui era il volto simbolo), dal 1996 al 2006 è stata ambasciatrice Unicef: un decennio durante il quale ha girato il mondo schierata contro il maltrattamento e l’abuso sessuale dei bambini.
La passione per la militanza sociopolitica, sostiene, è un’eredità della madre, l’attrice Geneviève Galéa. «È stata la sua educazione a farmi prendere coscienza delle differenze. È ciò che mi ha nutrito, quello che mi ha forgiata».
Ha sempre saputo che avrebbe fatto l’attrice? «No, volevo fare la majorette – ride —. Mi esercitavo tutti i giorni, marciando su e giù, facendo roteare il mio bastone».
Dopo alcune parti minori, la sua carriera prende il via al fianco di Yves Montand e Daniel Auteuil ( con cui avrà una lunga storia d’amore e una figlia, Nelly) in Manon delle sorgenti (1986). Col film diretto da Claude Berri conquista il César come migliore attrice non protagonista. Un premio importante, che non basta però a farla sentire una star. «Mi sentivo insicura, non avevo frequentato la scuola d’arte drammatica. Volevo mollare, è stata una lunga lotta. Alla fine ha vinto la passione per la scena».
Nella commedia di Rambert interpreta una donna affamata di vita, di amore: si riconosce? «No, ma nel mio personaggio c’è quello che Pascal ha visto in me. E questo mi aiuta a guardarmi in modo diverso». Di cosa ha fame, allora? «Di conoscenza. Sono sempre piena di domande. Leggo e scrivo molto». Sostiene che il teatro sia il luogo dell’anonimato. «È così, sul palco nessuno sa chi sono; vale anche per me. Vedo il pubblico, lo sento, ma non conosco l’identità di chi è seduto in platea. Ogni sera tutto ricomincia daccapo, ogni cosa uguale eppure diversa. Ed è questo che mi affascina».