Corriere della Sera, 13 ottobre 2015
I due malavitosi che hanno ammazzato Cocò, il bambino di tre anni, che il nonno usava come scudo umano e che i due disgraziati temevano perché avrebbe potuto riconoscerli
COSENZA. Balordi e spacciatori, con idee da boss. E adesso anche killer. È l’identikit di Cosimo Donato e Faustino Campilongo, 38 e 39 anni, criminali del sottobosco ‘ndranghetistico che la procura distrettuale antimafia di Catanzaro indica come gli assassini del piccolo Nicola, detto Cocò, Campolongo, tre anni, del nonno Giuseppe Iannicelli, di 52, e della compagna di quest’ultimo, la 27enne marocchina Ibtissam Touss. I tre furono uccisi a colpi di pistola e i loro corpi dati alle fiamme dentro la Fiat Punto di Iannicelli.
Nella richiesta di custodia cautelare per triplice omicidio e distruzione di cadaveri (i due si trovavano già in carcere per altri reati), firmata dal procuratore aggiunto Vincenzo Luberto, emergono la dinamica e il movente della strage del 16 gennaio 2014 a Cassano allo Ionio. Un’esecuzione spietata che ha fatto inorridire il mondo intero per la sorte toccata a Cocò, che il nonno portava sempre con sé come «scudo» per evitare possibili agguati. Ora le indagini dicono che fu giustiziato perché, nella mente allucinata dei killer, sarebbe potuto diventare una sorta di «testimone scomodo». Il Ros e i carabinieri dei comandi territoriali di Cosenza hanno accertato che Giuseppe Iannicelli sapeva di essere nel mirino delle cosche della Sibaritide, in particolar modo degli Abbruzzese, il «clan degli zingari». Consapevole dei rischi che correva, aveva deciso di servirsi del nipotino immaginando che la sua presenza rappresentasse un ostacolo insormontabile per coloro che avrebbero voluto la sua eliminazione. Cocò era l’ultimogenito della figlia Antonia Maria, in carcere per reati di droga. La donna ha altri due figli minorenni, che in estate sono stati allontananti dalla famiglia e oggi vivono in una comunità protetta.
Giuseppe Iannicelli ha avuto un passato da spacciatore, è stato condannato assieme a tutta la sua famiglia per traffico di sostanze stupefacenti e a un certo punto del suo percorso criminale aveva deciso di mettersi in proprio, eludendo il monopolio degli Abbruzzese, clan leader a Cassano e nell’Alto Ionio cosentino del traffico della droga importata dall’Albania e dalla Turchia. Uno sgarbo, anzi di più una vendetta; perché Iannicelli aveva confidato alla moglie Maria Rosaria Lucera l’intenzione di iniziare a collaborare con la giustizia. C’era poi il debito che i due killer avevano contratto proprio con lui per una partita di droga non pagata. Quanto basta per decidere di eliminare Giuseppe Iannicelli, personaggio diventato troppo scomodo.
L’uomo nel pomeriggio del 16 gennaio 2014 si trovava in auto con la compagna e il nipotino. Faustino Campilongo e Cosimo Donato lo incrociarono. I tre si conoscevano. Campilongo era il marito della compagna marocchina di Iannicello, sposata per fare avere alla donna la cittadinanza italiana. Donato era il consuocero, la figlia Eleonora aveva una relazione con Giuseppe Iannicelli jr. I due killer convinsero il nonno di Cocò a seguirli in campagna con la promessa di saldare il debito contratto per l’acquisto della droga. E lì venne commesso il triplice omicidio. Intervenne persino il Papa. Che in viaggio pastorale a Cassano per commemorare il piccolo Campolongo, «scomunicò» gli autori della strage e tutti gli uomini di ‘ndrangheta.
Approfondimento di Buccini
Nel mondo di Cocò, i draghi e gli orchi si camuffavano con nomi da cartone animato. «Topo» e «Panzetta» si facevano chiamare Cosimo Donato e Faustino Campilongo, i suoi carnefici: spacciatori d’eroina agli ordini di nonno Peppino Iannicelli, malacarne di paese decisi a scalare il cielo sopra la Calabria ionica eppure anche un po’ «zii» acquisiti, sì, zio Topo e zio Panzetta, personaggi familiari attraverso i quali sbirciare nei misteri dei grandi. E il nonno, quel nonno ancora forte, che chissà quante volte gli aveva fatto coraggio nelle notti senza mamma e papà chiusi in galera, beh, anche il nonno aveva paura. Talmente tanta, di venire accoppato, da tenersi incollato sempre addosso proprio lui, Cocò, povero inconsapevole scudo umano: «Pensava che non avrebbero osato infrangere le leggi della ‘ndrangheta e fargli un agguato mentre era col bambino», hanno raccontato, poi, i parenti.
Ma è una balla la vecchia storia del rispetto per donne e bambini. La ‘ndrangheta, come la mafia o la camorra, non ha mai avuto onore. E le sue cellule, le ‘ndrine, sono famiglie contro le leggi di natura. Perché, se snaturato è un nonno che si ripara dietro il corpicino del nipote, non lo sono meno l’ex compagno di Lea Garofalo che fa rapire la madre quasi sotto gli occhi della figlia o i genitori di Maria Concetta Cacciola, che usano al telefono il pianto dei nipotini per convincere lei, sotto protezione, a pentirsi d’essersi pentita. Non c’è posto per i sentimenti nelle terre dove il fratello deve ammazzare la sorella che parla con gli sbirri se vuole salvare il buon nome della casata.
E senza sentimenti doveva essersi ridotto nonno Peppino: Cocò, la sua tenera assicurazione sulla vita, se lo tirava appresso persino a Timpone Rosso, roccaforte del clan degli Zingari nel cuore del cassanese, quando il capo dei capi, Luigi Abbruzzese, lo chiamava per strigliarlo, sospettandolo di tutte cose vere, che si stesse mettendo in affari col clan rivale dei Forastefano o che, addirittura, meditasse di squagliarsela andando sotto la protezione della giustizia. Così, per soprammercato, Peppino si faceva accompagnare pure da «Betty», Ibtissam Touss, la sua giovanissima compagna marocchina: «Guida tu, che sono stanco», le diceva. In realtà, con quel simulacro di famiglia, s’illudeva di proteggersi. «Prima di morire, veniva convocato a Timpone Rosso quasi ogni giorno», ha raccontato Battista, il fratello, ai carabinieri del Ros: «Era spaventato, lo minacciavano di morte». Anche questo ha sentito e visto Cocò: la voce terrificante del boss, la tensione nell’aria. Il nonno si faceva di colpo piccolo piccolo. «Ma ripeteva che con una donna e un bambino non gli avrebbero mai fatto del male», raccontano adesso. Sbagliava. Ha solo fatto ammazzare con lui pure la donna e il bambino.
Nulla viene risparmiato al piccolo Nicola Campolongo junior nei suoi tre anni e mezzo di vita. Capita a volte di nascere al momento sbagliato, nel posto sbagliato. E la tragedia di Cocò sta proprio nel momento. Lui è nato da dieci mesi, primo maschio dopo due sorelline, quando gli arrestano tutta la famiglia, papà Nicola senior, mamma Antonia, nonna Carmela, zia Simona: operazione antidroga Tsunami, un vero maremoto domestico. La scampa solo nonno Peppino che ha appena scontato otto anni di galera e ha l’obbligo di dimora notturna a casa. Le sorelline vanno con la zia (ai domiciliari), ma a chi affidare il bambino? A un anno e mezzo Cocò finisce in prigione: la madre, pure ai domiciliari, evade per andare a trovare il marito, la rimettono dentro e il piccino non può restare che con lei, dietro le sbarre. Serve una soluzione. Col senno di poi a chiunque parrà assurdo, ma in quel momento a qualche giudice la soluzione sembra il nonno.
Peppino è un trafficante di quelli che contano, a Cassano comanda. Il clan degli Zingari lo considera una specie di ambasciatore e gli passa un chilo di roba al mese. Lui si tiene sotto come cani da guardia quei due giovanotti di Firmo, nel vecchio feudo di Altomonte, Cosimo Donato e Faustino Campilongo, i «firmaiuli»: due tossici però svelti di mano quando non sono fatti, il Topo («Mio» in arberesh) e il Panzetta. Un po’ ci si «imparenta». Del Topo è quasi consuocero: suo figlio Giuseppe junior è fidanzato della figlia di Cosimo; il Panzetta lo usa: gli ordina di sposare per l’anagrafe Betty, la sua donna, che ha bisogno della cittadinanza italiana. E insomma Cocò è di casa con il Topo e il Panzetta. Per questo muore, non per errore, non come un «danno collaterale»: «Hanno avuto paura, il piccolino li riconosceva a occhi chiusi», sussurrano i parenti di Cosimo Donato intercettati dalle microspie. Ciò che mamma Antonia, del resto, ripeteva dal primo momento. Perché in questa storia di famiglia letale e mafiosa, tutti sanno tutto.
Ma solo una donna ha il coraggio di rompere il silenzio, resistendo alle minacce. Un’altra vittima: Sonia Di Monte ha appena 11 anni quando il Topo ne fa la sua amante, da lui avrà poi una bambina. Ha ancora due figli da due uomini diversi, ma lui continua a ronzarle attorno anche adesso che è sposata, e si vanta, parla troppo: «Pensi che sono un buono a nulla, e invece sono il capo di Firmo, ho fatto ammazzare Peppino Iannicelli!». Sì, lui e il Panzetta sono quelli della trappola: nonno Peppino di loro si fida e li segue alla masseria Scorza, dove altri quattro o cinque boia aspettano. La sera sono lì, per dar fuoco ai corpi. Quando ripassano a Cassano, puzzano ancora di bruciato. Come a volte capita ai draghi, o a certi assassini infami.