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 2015  ottobre 10 Sabato calendario

La storia di Bush junior imboscato per non andare in guerra, smascherato da Dan Rather durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2004 e però abbastanza potente per riuscire a farla franca e rovinare la carriera del giornalista. Cronaca di una discussione al New York Times

 NEW YORK
Quale ruolo è riuscito a difendere il giornalismo investigativo in America, dai tempi dello scandalo Watergate che travolse un presidente 41 anni fa, fino all’epoca odierna? E chi meglio potrebbe rispondere di Dan Rather, sua maestà l’anchorman-reporter-opinionista per eccellenza; insieme con Robert Redford, l’attore-regista politicamente impegnato nella tutela dell’ambiente contro il Big Business, il liberal che interpretò la parte del giornalista Bob Woodward in “Tutti gli uomini del presidente”? L’occasione per vederli insieme mi viene offerta dal New
York Times. È il giornale che organizza un dibattito sul “caso Dan Rather”, per l’uscita del film Truth (Verità), che ricostruisce il capitolo conclusivo – non il più glorioso – nella carriera del grande reporter televisivo. La vicenda è del 2004: ancora numero uno delle news nel network Cbs, Rather fa lo scoop che potrebbe costare la rielezione a George W. Bush e portare alla Casa Bianca John Kerry. Rivela che Bush si era imboscato durante la guerra del Vietnam, aveva usato le amicizie del padre per farsi arruolare nella Guardia nazionale del Texas, poi non si fece vedere neppure lì. “Missing in action”, proprio il presidente che ha trascinato l’America in due guerre, di cui una fondata su menzogne provate (le armi di distruzione di massa di Saddam). La sostanza dello scoop è vera al 100%. Ma il clan Bush riesce a incastrare Rather sull’origine incerta di alcuni documenti esibiti nel reportage. La destra monta uno scandalo, la notizia diventano gli errori della Cbs nel verificare alcune fonti. La proprietà di Cbs, il conglomerato Viacom, molto legato all’Amministrazione Bush per scambi di favori aziendali, monta un processo a Rather e lo costringe al pensionamento. Ne fa le spese ancora più duramente la sua producer Mary Mapes: carriera rovinata. Dal suo libro di memorie è tratto il film in cui Redford è Rather e Cate Blanchett è la Mapes. È il quartetto che ho visto riunito giovedì al New York Times. Ecco i loro scambi più interessanti.
Blanchett. Nel 2004 seguii quella vicenda dall’Australia, mi sembrò una storia molto americana ma di un’importanza globale. Rimasi colpita da come il grosso scandalo di Bush- imboscato fu accantonato velocemente, mentre la destra ingigantì alcune contraddizioni nei ricordi di guerra di John Kerry, un eroe decorato al valore in Vietnam. Il libro di Mary Mapes ricostruisce la storia in modo fattuale, onesto, non c’è un tono di propaganda.
Redford. Sono sempre stato attratto dal giornalismo perché non posso immaginare una società libera senza la stampa. Conobbi Dan nel 1970 quando mi battevo per impedire la costruzione di centrali a carbone nello Utah, e lui venne a intervistarmi per il programma 60 Minutes. Quando ci siamo incontrati per parlare di come avrei interpretato la sua parte, Dan mi ha detto: è una storia che ruota attorno alla fiducia. Noi avevamo fiducia nella Cbs; loro ci hanno tradito. Ecco, questa è la differenza fra Truth e Tutti
gli uomini del presidente.
Anche i reporter Woodward e Bernstein del Washington Post quando indagavano sul Watergate nel 1972-1973 commisero qualche errore. Ma l’editrice del giornale li sostenne fino in fondo, difendendoli dalle pressioni di Richard Nixon. Mentre Cbs ha mollato Rather e la Mapes. Loro due ne stanno ancora pagando le conseguenze.
Rather. La Cbs aveva sostenuto i suoi giornalisti per decenni, dall’epoca delle battaglie per i diritti civili o nella guerra del Vietnam, anche quando i nostri reportage erano scomodi. Nel 2004 la dinamica è cambiata. Di fronte alle nostre rivelazioni, che nessuno ha mai potuto confutare, gli ambienti vicini a Bush ci hanno attaccato non sui contenuti ma sul metodo. Poiché di alcune lettere su George Bush (firmate da generali dell’esercito che lo avevano protetto, ndr ) non eravamo riusciti a dimostrare l’origine, lanciarono nel dibattito pubblico l’accusa di “contraffazione”. La parola “contraffazione” cominciò a girare, tutta l’attenzione si spostò su quella. Gli altri media cominciarono a occuparsi di noi, non della vicenda Bush. Le mie scuse pubbliche fatte durante il telegiornale vennero ridefinite come una ritrattazione, una smentita della notizia, cosa che non erano. Oltre alle lettere contestate, noi avevamo accumulato ben altre prove, documenti e testimonianze. Dopo undici anni nessuno ha mai provato che quelle lettere fossero contraffatte. Mary e io insieme ai nostri collaboratori fummo sottoposti ad un’indagine interna della Cbs. Solo in seguito, scoprimmo che il panel di avvocati messo assieme per interrogarci, era stato concordato dalla proprietà, Viacom, con la Casa Bianca di Bush.
Redford. Questo è uno dei temi sollevati dal film. Il peso degli assetti proprietari e l’influenza del controllo capitalistico sulla nostra libertà di parola e di informazione. Nei dialoghi del film è importante una frase che io pronuncio nella parte di Dan: quando tu smetti di porre delle domande, allora è l’America che ha perso. Un altro passaggio nei dialoghi di Dan affronta il decadimento della televisione americana: un tempo le news erano un settore separato, rispettato, quasi sacro. Poi la tv è diventata il dominio dell’entertainment e la logica dello spettacolo ha cominciato a condizionare anche le news.
Blanchett. Da quella storia sono passati undici anni e temo che il ruolo del giornalismo investigativo sia ancora più sotto tiro oggi. Fa impressione ricordarlo, ma nel 2004 non esisteva ancora Twitter, la blogosfera stava appena sviluppandosi. Oggi mi preoccupa vedere una massa di gossip ri-twittati che diventano verità. Il giornalismo vero è assediato dall’opinionismo, una massa di opinioni diventano virali e distolgono l’attenzione dal lavoro di inchiesta.
Rather. La vera questione, è se vogliamo che i media americani parlino il linguaggio della verità di fronte ai poteri costituiti, che continuino a porre tutte le questioni scomode, senza accettare le cortine di segreto.
Mapes. Io da allora non ho mai più potuto lavorare in televisione. Il linciaggio a cui venni sottoposta arrivò fino a coinvolgere mio padre, che aveva abbandonato la famiglia e che io non vedevo da molti anni. Lo ritrovò l’anchorman radiofonico di destra Rush Limbaugh, e lo ascoltai accusarmi alla radio di essere sempre stata una femminista radicale, politicizzata e fanatica.
Ma mi brucia soprattutto il fatto che accusarono noi di falsità, non il presidente che aveva mentito all’America e al mondo intero, bugìe ampiamente dimostrate, per scatenare la guerra in Iraq.