Corriere della Sera, 10 ottobre 2015
Tissot e l’amore disperato per la bella Kathleen Newton
Forse si innamorò di lei poco alla volta. Dipinto dopo dipinto, dettaglio dopo dettaglio. Forse si innamorò di lei ritraendone il viso, quasi «costruendo pittoricamente» il suo amore, con le fattezze di questa donna bellissima. Un viso ovale, un sorriso che sapeva nascondersi dietro un accenno, un naso che ad ogni risata si ingobbiva un poco – sopra ci si può immaginare un rossore diffuso. Tissot aveva appena anglicizzato il suo cristianissimo nome francese in «James» (si chiamava Jacques-Joseph) e si era da poco trasferito a Londra dopo il fallimento della Comune parigina, nel 1871, quando conobbe Kathleen Newton. Nome da sposata: lei, di buona famiglia irlandese, un’adolescenza trascorsa in terra indiana, un matrimonio (combinato) alle spalle e non consumato, l’onta del divorzio, vestiva una purezza che James non si stancò mai di trasformare in colazioni sull’erba, in riposi pomeridiani sull’amaca, in letture nel parco, interrotte da lui, l’innamorato marito, con lei che alza gli occhi dal libro
in un continuo esercizio di pazienza, leggerezza, dolcezza. Poco importa che il severo Ruskin parli di «mere fotografie dipinte dell’alta società», criticando i suoi ritratti. Guardiamo, in mostra, la vita della ventenne Kathleen, che scorre placida, via via più mesta. Il ritratto di Kathleen diventa un singolare diario della malattia di lei (la tubercolosi), che la accompagna fino alla fine, fino allo struggente La convalescente, realizzato poco prima della morte di lei per suicidio, nel 1882. Come farà in seguito lo svizzero Ferdinand Hodler, che ritrarrà la moglie Valentine morente. Come un estremo tentativo di conservarne la presenza fisica – non tanto farne ricordo. L’arte rende concrete le cose che ci portiamo dentro, amori compresi. Ecco perché, alla morte di Kathleen, Tissot cambierà completamente vita, arte, senso religioso, Paese. Era diventato Tissot grazie a lei, senza di lei divenne altro.