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 2015  ottobre 09 Venerdì calendario

Imparare a cantare l’Italia corrotta con Ivano Fossati. A Sanremo, il Maestro spiegherà come e perché si scrive una canzone. Perché ormai i cantautori non esistono più: «Li hanno uccisi l’anagrafe. La società di oggi va troppo di corsa»

I cantautori non esistono più. Cancellati «dal calendario e dall’anagrafe», da una società che va di corsa, troppo di corsa. Culto della velocità che cambia «i canoni stessi attraverso cui fare musica». Penserà a questo Ivano Fossati quando la prossima settimana partirà dalla sua Genova per raggiungere Sanremo. Verso il Palafiori, non distante dal Teatro Ariston, dove il 15 l’autore di Panama e L’amore trasparente terrà una lezione di due ore per i giovani artisti che partecipano ad “Area Sanremo”. Con lui nel ruolo di docenti ci saranno anche Nina Zilli, Emis Killa e Mauro Pagani, che è il direttore artistico di questo contro-talent nato all’interno del Festival della Canzone Italiana (da qui due vincitori entreranno nella sezione Nuove Proposte). Una lectio magistralis fatto per «trasmettere quanta più esperienza e informazioni possibili a chi intende intraprendere la carriera di interprete e autore». Partendo dai «meccanismi che aiutano a sviluppare creatività e capacità di raccontare» per arrivare «fino ad aspetti più pratici come la contrattualistica, le edizioni o i fondamenti di home recording». Fossati illustrerà ai ragazzi le «dieci ragioni per scrivere (o no) una canzone», ripercorrendo con loro la sua carriera dagli esordi negli anni 60 fino all’addio al palco nel 2012.
Ivano Fossati, nel testo del “La mia banda suona il rock” lei parlava di speranza e di pazienza riferendosi alla musica. Bisognerebbe ricordarlo a chi vuole fare il cantautore?
«Direi di sì, speranza e pazienza è sempre meglio averle in tasca, ma sulla scelta di un ragazzo che pensi a se stesso come a un cantautore ai tempi dei social, dei talent, di Katy Perry e Miley Cyrus, ho qualche perplessità. Mi sembra vagamente anacronistico. Per contro va detto che i ragazzi oggi chiamano cantautori anche Lenny Kravitz o John Mayer. La cosa mi rincuora, in passato ho sentito definire così anche Jimi Hendrix».
In Italia ci sono sempre meno cantautori. Che fine hanno fatto?
«Li hanno uccisi l’anagrafe e il calendario. Le modalità di comunicazione viaggiano alla velocità della luce e anche le canzoni sono comunicazione. I canoni della musica che piace ai ragazzi sono impenetrabili, se non ci sei nato dentro meglio non imitarli. Il resto è realtà passata. Il motore propulsivo secondo me si è spento da un pezzo, anche se per un certo pubblico il genere cantautorale funziona ancora bene».
Nella sua lezione a Sanremo spiegherà come e perché si scrive una canzone. Siamo un paese con tanti bravi interpreti e pochi autori di talento?
«Forse oggi manca chi ha voglia di osservare con attenzione la realtà. Per raccontare bisogna essere capaci di “vedere”, altrimenti vengono fuori solo sciocchezze accompagnate da basso e batteria. Mi sembra che in Italia ci sarebbe tanto da osservare. D’accordo, non abbiamo l’epica dei grandi spazi e i miti della frontiera, ma siamo considerati il paese più corrotto d’Europa, da noi arrivano e transitano i migranti e i rifugiati sospesi fra Lampedusa e la Germania. Per i cantautori degli anni 70 argomenti del genere sarebbero bastati».
Tra le dieci buone ragioni per le quali vale la pena comporre una canzone, ce n’è una che sta sopra tutte le altre?
«Se non hai niente da scrivere non scriverlo. Non mi piace l’immagine dell’autore seduto davanti ad una pagina bianca che si chiede come riempirla guardando il soffitto. Una canzone, come un libro o un film, deve rappresentare qualcosa. Non parlo di contenuti alti, anche la più leggera delle canzoni secondo me può dire una parola preziosa, anzi spesso succede proprio questo. Molte canzoni “leggerissime” degli anni 60 contengono passaggi toccanti e ammirevoli visti da un autore di oggi. Milioni di persone le ricordano con piacere, quindi vuol dire che c’era una ragione per scriverle».
Ha cominciato la sua carriera suonando in varie band. Una scelta giusta a posteriori?
«Ho capito che a suonare da soli nella propria stanzetta non si impara niente. E non per una mera questione musicale: la verità è che bisogna scornarsi con le idee degli altri sennò si finisce per credere di avere sempre ragione. E mi creda non c’è niente di più pericoloso. L’essere parte di una band è un imprinting che insegna tante cose, sul piano musicale e su quello umano. Serve anche alla vita, perfino se dopo si decide di fare un altro mestiere».
Oggi le capita mai di provare nostalgia del palco?
«Il passato lo frequento poco e malvolentieri, non sono incline ai ricordi e nemmeno abbastanza stupido da cercare di pianificare il futuro. Mi resta solo il presente e qui sto a mio agio, confesso che non c’è spazio per alcuna malinconia. In studio di registrazione ci passo sempre molto tempo scrivendo canzoni per i miei colleghi, ma per quanto riguarda il palco, niente è per sempre».