Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  ottobre 08 Giovedì calendario

Piccolo catalogo degli orrori linguistici: dall’"attimino" all’abuso di "piuttosto che", dalle fissazioni giornalistiche alle ripetizioni della politica ai tempi di Twitter, dilaga sempre più in Italia «la pirlolingua degli informatofoni». La professoressa Bianca Barattelli: «Parlare è come vestirsi: ogni situazione richiede un linguaggio proprio»

In principio era “un attimino”. Inesorabilmente, come un virus, si diffuse a tutti i piani della società, ci inseguiva in banca, in palestra, in ufficio, a casa, nessuno ne era immune, dal prete allo psichiatra, dalla casalinga al parrucchiere. Poi avanzò violento il “piuttosto che” usato non in senso comparativo o avversativo, ma come congiunzione. “Andrei in Giappone, piuttosto che in Cina, piuttosto che a Cuba…”, dicevano i pierre di moda da Milano a Cefalù, i medici estetici, gli avvocati di Prati, le shampiste della Magliana: piacendosi molto. E intorno tutto un florilegio di “gentilmente”, “una firmetta qui”, “naturale o leggermente”… Che fastidio! La lingua italiana, con le sue regole e la sua sintassi, era sotto attacco.

La comunità web delle #paroleorrende
Ne parlai con Vincenzo Ostuni, editor di Ponte alle Grazie, che convenne: ormai non potevamo più ignorare il crimine, l’attacco efferato, l’invasione di certi obbrobri che ci salivano automaticamente alla bocca, che si impossessavano delle nostre dita. Avremmo dovuto allestire una lista nera, perché, come disse Ostuni in una sorta di manifesto di lotta contro le parole orrende, “la lingua tutta è un campo minato”.
Oggi la raccolta di #paroleorrende (l’hashtag sta a significare che la cura non può che essere omeopatica) impegna su Facebook molte persone, che – in una specie di trance agonistica – propongono ciascuna le proprie parole-tabù, le bestie nere, le espressioni-orticaria. Nessuno snobismo, nessuno spirito conservatore: oggi che il Papa parla la lingua del popolo e il latino lo parla solo Claudio Lotito, nessuno vuol tornare all’italiano di Machiavelli.
La lingua è un’entità plastica, vulcanica, e l’uso che ne fa la nostra psiche, avvinghiata agli algoritmi della rete, la rimodula incessantemente. Ormai nessun ostacolo può fermare “la pirlolingua degli informatofoni” (Guido Ceronetti). E infatti controllate nelle vostre mail, quelle di lavoro, degli uffici stampa delle case editrici o dei nostri politici. Non ce n’è una in cui non compaia qualche orribile lemma, un trito stilema, un insopportabile tic verbale. Ci sarà un timing, una dead line, una tabella di marcia, un customizzare, un ottimizzare, un funzionare (nel senso di convincere), un top, un performante, un endorsare, un quant’altro.

Nella poltiglia resta soltanto il “Googlish”
Fonemi vuoti, gassosi, che non vogliono dire niente e non hanno un vero e caldo rapporto con la nostra vita, ma evocano tutto un mondo di cultura progredita, sofisticherie aziendali, meeting motivazionali, affettazioni al passo coi tempi. Parole-chiave, hashtag, rapidi input brucia-sinapsi, inglesisimi usati per lo più impropriamente (e spesso da chi non sa l’inglese), voci in Googlish, quella lingua diffusa dai motori di ricerca che uniforma i lessici nazionali in una poltiglia globalizzata. Tic linguistici che usiamo per impreziosire il discorso e mostrarci parlanti evoluti, dopo la vittoria dell’antilingua di cui parlava Italo Calvino su Il Giorno nel 1965, quell’italiano paludato che impone di dire “ho effettuato” invece di “ho fatto”, col risultato comico di trovare scritto nei bar: “Non si effettuano panini”.
Oggi è tutto rapido e veloce, la contrazione delle parole è frenetica; negli spasmi del multitasking, non c’è tempo di scegliere. La palude è bassa. Se già nel ‘78 Alberto Arbasino registrava le fissazioni giornalistiche “dello scendere in lizza e dello spezzare una lancia, del lavorare ai fianchi e del battere in ritirata, della levata di scudi, delle frecce all’arco, del sentiero di guerra, della caccia alle streghe, della camicia di forza”, oggi il “giornalismo esploso” dei social diffonde i suoi cliché spompati di “paese reale” e “società civile”, i suoi automatismi dei “gusti del pubblico” e dei “due marò”, i suoi barbarismi da Jobs Act a start-up.

L’antilingua del potere
E non parliamo dei post-politici. Il basic italian da 140 caratteri di Renzi costringe alla ripetizione anche i più avvertiti, con i suoi “la volta buona” e “l’Italia riparte”, “andare a vedere le carte” e “non gettare la palla in tribuna”, “il risultato lo portiamo a casa” e “non cadiamo nel derby ideologico”.
Tutta una scialba metafora a condire il vuoto di contenuti; già che un conto è trasformare, usare, muovere la lingua, un conto è fossilizzarla nell’antilingua, assistendo senza resistere all’esaltazione corale del nulla lessicologico. Perché, sempre Calvino: “La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi”.

Daniela Ranieri

***

“Preferisco lavorare in gruppo con gli altri compagni perché si raggiunge una maggiore affinità”. La professoressa Bianca Barattelli, insegnante di italiano e latino in un liceo scientifico di Verona e autrice del saggio Scrivere Bene (Il Mulino), scherza sugli errori dei suoi alunni: “Perché accanirsi a fargli studiare la letteratura quando non sanno il significato delle parole? Ho dovuto spiegare al mio studente che l’affinità non si raggiunge, c’è o non c’è. Lui voleva dire affiatamento”.
Professoressa Barattelli può fare un esempio per spiegare meglio il concetto di “adeguatezza della lingua” alla situazione?
Facciamo un parallelo con l’abbigliamento: nessuno – pena la censura sociale o il ridicolo – andrebbe a una cerimonia in tuta da lavoro, o si presenterebbe in smoking in un rifugio sulle Dolomiti. Così il mio libro si rivolge a chi tiene a indossare sempre l’abito giusto nella diverse occasioni in cui si presenta in società con un testo scritto.
Uno degli esercizi di stile “più terribili” che lei ha individuato è la scrittura del curriculum vitae. Come uscirne vivi?
È un caso in cui l’abito fa il monaco più che in altri. L’accuratezza formale è la prima regola. Deve essere ineccepibile: se conosciamo poco una lingua, possiamo scrivere che abbiamo “una conoscenza scolastica o essenziale”, ma mai usare “mediocre”. È necessario minimizzare i propri limiti senza darsi la zappa sui piedi. Si può usare la fantasia ma, come nel caso dei bigliettini da visita, eviterei di utilizzare colori acidi o vesti troppo New Age: massima attenzione alla veste grafica che deve essere pulita e ordinata. Lo stesso vale per il flagello della “mail-formulario” scritta in burocratese e con espressioni desuete: usate toni più normali, non siamo nell’esercito e nemmeno nella Legione Straniera.
A proposito dell’uso di parole provenienti da altre lingue lei ha parlato di “rischio babele”.
Per darci un tono usiamo forestierismi imposti da una tendenza a credere che siano più funzionali: dire briefing ci fa sentire più efficienti di quei poveretti che partecipano a una semplice riunione. La strada giusta è diffidare dall’”aziendalese” e usare l’inglese solo quando esprime un concetto in modo migliore, come nei casi di check-in o social network. E per scrivere e pronunciare la parola in modo corretto assicurarsi che si tratti davvero di inglese, e non di latino come nel caso di mass media, summit, tutor, sponsor e tante altre insospettabili.
Che cosa è vietato in un testo scritto?
Il turpiloquio. Vietato in chat, sui social e via sms: scripta manent e prima o poi ha l’effetto di squalificare chi lo usa, o peggio si ritorce contro chi ne ha abusato. Si può senz’altro chiudere un occhio se qualcuno schiacciandosi il dito con un martello non dirà “accidenti”, ma alle parolacce la lingua italiana offre una ricca serie di alternative: sarebbe un peccato lasciarsele scappare per prigrizia o per sembrare disinibiti.
Meglio dare del “tu” o del “lei” come sostiene Umberto Eco?
Rimane l’uso del “lei” di cortesia ma spesso è solo un retaggio delle corti del Quattrocento, da evitare come la peste quando si scrive. È “come continuare a portare la parrucca o i boccoli degli ominoni tronfi e vacui del Sei-Settecento e gli infiocchetati codini dei cavalier serventi o dei cicisbei”, spiegava lo scrittore Bruno Cicognani sul Corriere della Sera già nel 1938.
Caterina Minnucci