il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2015
Per combattere seriamente l’Isis occorrono truppe di terra e non aerei, e bisognerebbe prendere esempio da quello che George Bush padre fece nella prima guerra del Golfo in Iraq. In quanto alla partecipazione italiana ai bombardamenti, « È troppo chiedere a Renzi, almeno quando c’è di mezzo la guerra, un minimo di serietà?»
“Sapete per caso con chi stanno oggi gli italiani?”. La celebre frase di Otto von Bismarck torna in mente ogni volta che l’Italia entra in guerra, vista la nostra luminosa tradizione in materia: prima ci dichiariamo neutralisti o pacifisti o “non belligeranti”; poi partiamo in quarta su un fronte, di solito quello che perderà; infine chiudiamo in bellezza alleandoci con l’altro fronte, di solito quello che sta vincendo. Fu così nella Prima guerra mondiale, e anche nella Seconda. Ma anche, a ben vedere, nella catastrofica missione in Libia: eravamo (dai tempi di Andreotti e Moro a quelli di B.) amici di Gheddafi e finimmo col bombardarlo. In Afghanistan e Iraq facemmo ancora meglio: riuscimmo a essere contemporaneamente alleati dei nostri amici e dei nostri nemici, mettendoci d’accordo sia coi talebani sia coi terroristi che fingevamo di combattere, perché ci lasciassero relativamente in pace. Li foraggiammo anche lautamente pagando il riscatto per tutti gli ostaggi italiani che, diversamente da quelli degli altri paesi, venivano quasi sempre liberati. La cosa s’è ripetuta l’anno scorso, quando il governo Renzi regalò 11 milioni a un signore della guerra siriano in cambio delle cooperanti Greta e Vanessa. Ecco: è con queste credenziali di affidabilità, a tutti note, che stiamo modificando le regole d’ingaggio della nostra missione in Medio Oriente per partecipare con ben quattro Tornado ai raid contro l’Isis, l’autoproclamato Stato Islamico a cavallo tra Iraq e Siria. Ma solo nella parte irachena, perché il governo fantoccio di Baghdad non è contrario agli aiutini occidentali, mentre Assad preferisce i caccia russi.
Diciamo subito alcune cose che non piaceranno né ai guerrafondai né ai pacifisti senza se e senza ma, purtroppo dettate da un elementare realismo. L’Isis è un mostro armato fino ai denti (le armi sono quasi tutte occidentali, cioè anche nostre, eredità dell’arsenale di Saddam Hussein quand’era nostro alleato contro l’Iran, nostro attuale alleato) e dotato di una formidabile forza di penetrazione propagandistica e di reclutamento di volontari tra i popoli islamici (merito delle politiche occidentali nell’area), che gli eserciti regolari (perlopiù mercenari) non sono in grado di contrastare. Finora l’Occidente ha creduto di poterlo combattere per procura e a distanza, armando i peshmerga curdi sul campo e sostenendoli con raid aerei, quasi sempre con droni teleguidati da migliaia di chilometri, per ridurre al minimo i costi umani (occidentali, si capisce). Purtroppo non ha funzionato.
Difficile che l’Isis evapori da solo, senza un impegno militare occidentale: non di aria, ma di terra. L’unica soluzione è che ciascun paese si assuma le proprie responsabilità sotto l’egida dell’Onu, esattamente come avvenne nella prima guerra del Golfo, quella del 1991, quando l’Iraq si mangiò il Kuwait e un’ampia e legittima coalizione arabo-occidentale ripristinò la legalità internazionale e ricacciò le truppe di Saddam nei loro confini, creando una no fly zone e un cuscinetto occupato affinché non ci riprovassero, senza però mettere in discussione il regime di Baghdad. Fu il capolavoro di George Bush padre, molto apprezzato soprattutto dopo i disastri di George W. Bush figlio e dei suoi camerieri in Afghanistan e in Iraq. Ora, bombardare dall’alto lo Stato Islamico – terribilmente serio e ben organizzato sul territorio – come stanno facendo gli americani, i francesi e ora anche i russi (che, già che ci sono, colpiscono pure i gruppi dissidenti anti-Assad) non serve a nulla, perché non esistono trincee visibili da colpire.
Gli esperti militari concordano sul fatto che servirebbe un’azione di intelligence unita a una missione di terra, ben studiata, mirata e coordinata con l’Onu e tutti i soggetti interessati. Altrimenti, come avverte il generale Fabio Mini, “si bombardano i sassi” (e magari qualche ospedale come “effetto collaterale”, vedi l’ultimo raid Nato a Kunduz, con 22 morti ammazzati). Cioè si fa un altro po’ di propaganda, ci si lava la coscienza, si finge di contare qualcosa nel mondo, si riesuma il Patto del Nazareno, si giustifica l’ennesimo rinvio dei tagli alle spese militari e non si ottiene nulla, se non altri morti e un’ennesima ondata di revanscismo islamista. Infatti, in pochi mesi, i raid aerei anti-Isis in Iraq sono stati 4 mila, e nessuno se n’è accorto. Così come nessun giornale internazionale s’è accorto della “svolta” bombardiera dell’Italia, annunciata dal Corriere della Sera e confermata balbettando dalla ministra Roberta Pinotti (già suffragetta del pacifismo senza se e senza ma, come del resto Renzi, ma questa è un’altra storia).
Noi avevamo fin qui apprezzato la prudenza di Renzi nel respingere le pressioni della Francia per i raid in Siria. Poi però il premier è volato a Washington e, a quanto pare, ha preso impegni con Obama per i raid in Iraq, trascurando alcuni piccoli particolari. Uno è il Parlamento che – per quanto la cosa possa infastidirlo – è sovrano in rappresentanza del popolo e in ossequio alla Costituzione, specie per decisioni gravi come fare la guerra. Il secondo è che, per riconvertire la nostra missione dai compiti di ricognizione e addestramento a quelli di attacco servono settimane, forse mesi, non giorni. Il terzo è che noi avevamo promesso qualcosa in Libia, e con un “ruolo guida”, ma ora non se ne parla più. Il quarto è che, prima di dire sì o no ai bombardamenti in Iraq, bisognerebbe chiarire chi e cosa stiamo andando a bombardare, e con quale scopo, e con quali prospettive per il “dopo”. È troppo chiedere a Renzi, almeno quando c’è di mezzo la guerra, un minimo di serietà?