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 2015  ottobre 08 Giovedì calendario

Pit stop, gli uomini della Ferrari hanno cambiato quattro gomme in un secondo e ottantacinque centesimi. È successo a Suzuka, al 28° giro del Gran Premio del Giappone. Ma per riuscire in quest’impresa non bastano fisica e meccanica, bisogna ricorrere all’antica arte dello zen per migliorare la concentrazione e la respirazione. Prossimo obiettivo: un secondo

Un secondo e ottantacinque centesimi. Anche solo a leggerlo ci si mette molto di più. Un spazio di tempo brevissimo, che però è stato sufficiente agli uomini della Ferrari a realizzare quel piccolo miracolo domenicale, quel gioco di prestigio conosciuto con il nome, a dire il vero riduttivo, di “cambio gomme”. È successo a Suzuka, al 28° giro del Gran Premio del Giappone. Un secondo e ottantacinque centesimi di adrenalina e concentrazione, e la squadra di Maranello è entrata nella storia, nel club esclusivissimo di chi è riuscito ad abbattere la soglia non solo psicologica dei due secondi per quattro gomme.
Sotto i due secondi il cambio gomme è un’attività che non risponde più solamente alle comuni leggi della fisica e della meccanica, ma sconfina in quella zona magica a cavallo tra le neuroscienze, la tecnologia esasperata e lo zen in cui insistono antichi e nobilissimi sport, come il tiro con l’arco o tiro a segno, in cui a fare la differenza sono porzioni di millimetro, respiri. Basta attraversare le visiere dei caschi ignifughi e guardare negli occhi uno degli addetti prima dell’arrivo della macchina per farsi un’idea della concentrazione assoluta che questi ragazzi devono raggiungere per eseguire con perfezione automatica un gesto che il pensiero può solamente rallentare.
Già, il pensiero. È lui il vero nemico. Il movimento del braccio, quello delle dita, il codice di comunicazione tra gli elementi del team, tutto deve essere perfettamente interiorizzato per essere certi di fare tutto senza mai dover ricorrere alla testa. Quando ci si muove negli spazi minuscoli dei centesimi di secondo, la testa, con le sue fughe e i suoi vizi, diventa solo un ingombro.
Non è sempre stato così, ovviamente. Oggi il cambio di gomme è considerato un’opportunità (di sorpassare, di difendersi, di far sbagliare il rivale) ma un tempo era una necessità. E prima ancora era un problema. Ne sapeva qualcosa Manuel Fangio vittima, si fa per dire, di uno dei primi pit stop della F1. Era il Gp di Germania del 1957. I suoi meccanici impiegano un minuto e 16 secondi per completare il cambio gomme alla sua Maserati 250F. L’argentino torna in pista a 48 secondi dalle Ferrari di Hawthorn e Collins. Un distacco immenso, per colmare il quale Fangio dovette inventarsi una manciata di giri veloci consecutivi. Alla fine vinse ma, raccontò, quel pit stop gli costò talmente tanta fatica, fisica e mentale, che una settimana non riuscì a dormire la notte.
Non erano degli atleti allenati nei muscoli e nei riflessi come lo sono oggi, ma i meccanici del pit stop sono sempre stati degli eroi. Chiedete a quelli che nel 1989 erano al box di Nigel Mansell, al Gp di Portogallo. L’inglese arriva lungo alla piazzola e invece di aspettare gli addetti alla manovra, ingrana la retromarcia e, con le altre macchine che sfrecciano a 200 all’ora ( non c’era l’obbligo del limitatore) torna indietro rischiando la strage. Ai tempi di Mansell il pit stop era già diventato una necessità. E, a differenza del rifornimento di benzina, era già stato accettato dai puristi della F1 come parte dello spettacolo. Forse proprio per le sue componenti atletiche, psicologiche e tecnologiche così coerenti con il resto della F1. Per riempire un serbatoio ci vuole sempre un tempo minimo. Per cambiare le gomme, a quanto pare, il limite è ancora da esplorare. L’obbiettivo ora è il muro del secondo. Anno dopo anno i team affinano dotazioni e tecniche. La Red Bull è stata la prima a montare led sui bulloni per facilitare l’innesco della pistola, altri team usano i puntatori laser per indicare al pilota il punto esatto in cui bloccare le gomme (è uno dei momenti chiave del pit stop perfetto); alla Ferrari i meccanici svolgono intere sessioni nella “mind room”, la palestra per allenare concentrazione e potenziamento della visione periferica. Ma alla fine, la vera differenza la fa l’affiatamento. «I calciatori pensano che sia difficile essere una squadra per 90 minuti – ripete sempre un veterano della pit lane – Se sapessero quanto è più difficile esserlo per 2 secondi…».