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 2015  ottobre 08 Giovedì calendario

Alberto Burri, traumi d’artista. Nel centenario della nascita (e ventennale della scomparsa), il Guggenheim gli dedica la mostra più completa di sempre, tra quadri, «Sacchi», «Plastiche» e «Muffe»

Nessun segno, striscione o manifesto che sia, annuncia almeno per ora la mostra-evento che il Guggenheim di New York dedica da domani, venerdì 9 ottobre, fino a gennaio ad Alberto Burri nel centenario della nascita e a vent’anni dalla scomparsa (12 marzo 1915 -13 febbraio 1995). Ad anticiparne l’incredibile carico di emozioni solo la sagoma disegnata da Frank Lloyd Wright e una semplicissima scritta sulla prima rampa, all’interno dell’edificio: ormai simbolo certificato della città, ma all’origine vero e proprio trauma inflitto al classico tessuto urbano della Grande Mela. Trauma, appunto: turbamento dello stato psichico prodotto da un avvenimento dotato di notevole carica emotiva o, a secondo delle definizioni, evento negativo che incide sulla persona e la disorienta.
The Trauma of Painting, questo il titolo della prima (e più completa in assoluto) mostra che gli Stati Uniti dedicano a Burri da trentacinque anni, propone però una lettura diversa e sicuramente piu positiva di questo trauma, visto stavolta come qualcosa in grado di scatenare energia e creatività. Perché al Guggenheim va di fatto in scena non solo la celebrazione di uno dei maestri della modernità, ma la rappresentazione di una certa idea di Rinascimento italiano, quello capace di trasformare un evento tragico come la guerra o una crisi economica, un trauma appunto, in un impulso al fare, al creare, all’inventare. Era successo l’anno scorso con l’esposizione dedicata ai futuristi, ancora al Guggenheim, e si ripete ora con Burri. Mentre di Rinascimento italiano già parlano, in questi giorni, tra Central Park e Soho, anche la mostra sull’eccellentissimo pittore Andrea del Sarto alla Frick Collection, quella di Giorgio Morandi al Center for Italian Art (il Cima), le evening sale in programma da Sotheby’s e Christie’s. E già si annuncia per il 2017 la prima retrospettiva dedicata a Lucio Fontana dal Met, ancora una volta un italiano a New York.
Un centinaio di opere scelte dalla curatrice Emily Braun e collocate nella spirale progettata da Frank Lloyd Wright nel 1943. Molte sono inedite negli Usa, alcune come i due Grande bianco del 1952 e del 1956 arrivano dalla Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri a Città di Castello. Un percorso che proprio come era nelle intenzioni di Lloyd Wright, invita costantemente a guardare indietro, al passato, ma con un occhio al futuro, al domani davanti a noi. Un allestimento giustamente essenziale («equilibrato, ma da cui ci aspettiamo molto in termini di visitatori», spiega il direttore del museo Richard Armstrong) che il «Corriere» ha visitato in anteprima e che si snoda sia cronologicamente che per fasi artistiche. Si parte da tre incredibili Grandi plastiche degli Anni Cinquanta e si conclude con una serie di disegni inediti che Burri aveva realizzato durante la prigionia nel 1943 nel campo di Hereford (in Texas) dopo la cattura della sua unità (Burri era ufficiale medico dell’esercito complice una laurea in Medicina). Testimonianza emotiva fortissima di un’esperienza che l’avrebbe portato a dedicarsi solo all’arte. E se sorprende ancora una volta la modernità della lezione di Burri, è davvero impressionante avere a che fare fisicamente con le sue superfici lavorate a colpi di bruciature, cuciture, lacerazioni, con i suoi sacchi di juta rammendati, con le sue gobbe in rilievo, con le sue plastiche industriali fuse. Opere che in molti casi alludono («sia pure in modo astratto», come spiega Emily Braun) a corpi umani o a membrane ferite, opere che colpiscono al cuore ma anche allo stomaco. Dunque, l’ennesimo trauma legato alla guerra e alla catastrofica sconfitta dell’Italia (per questo la mostra si apre, prima ancora che con le opere, con un video «Luce» che racconta impietosamente il Paese postbellico).
Esplorando la bellezza e la complessità del processo creativo che sta alla base delle opere di Burri, la mostra lo elegge ancora a protagonista della scena artistica del secondo dopoguerra, in grado di coniugare la lezione di Luca Signorelli (simbolo della sua terra d’origine, l’Umbria) e di Piero della Francesca (alla piega del manto della Madonna del parto di Piero della Francesca rimanda il Grande Ferro M3 del 1959) a quella modernissima della Land Art (in mostra anche un video d’autore sul Grande Cretto di Gibellina). E se per molti Burri si identifica prima di tutto con la serie Sacchi realizzata con resti di sacchi di juta lacerati, in cui per la curatrice ritrova il neorealismo di Rossellini mentre nelle plastiche rosse c’è l’Antonioni di Deserto rosso, stavolta i visitatori (soprattutto gli americani che non conoscono ancora bene quel periodo, pur essendo tra i suoi più grandi collezionisti) dovranno invece confrontarsi con gli altri suoi esperimenti: Catrami, Muffe, Gobbi, Bianchi, Legni, Ferri, Combustioni plastiche, Cretti, Cellotex. Perché Burri del trauma ha saputo fare in qualche modo la bussola del suo itinerario d’artista. «Il suo lavoro ha raso al suolo e felicemente stravolto la tradizione pittorica occidentale – spiega Emily Braun —. Con i suoi rossi, i suoi neri, i suoi bianchi, i suoi dipinti-oggetto Burri ha celebrato il potere delle emozioni che nascono dal dolore e dalla sofferenza». Del trauma, appunto.