Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2015
Da ieri il grande accordo di libero commercio della regione del Pacifico, la Trans Pacific Partnership, è realtà. L’intesa, il cui testo in dettaglio con i suoi 30 capitoli sarà reso noto solo nelle prossime settimane ma intanto il Giappone tira un sospiro di sollievo
Il grande accordo di libero commercio della regione del Pacifico, la Trans Pacific Partnership, è realtà. All’alba di ieri, dopo negoziati a oltranza, gli Stati Uniti e gli altri undici paesi impegnati nelle trattative, a cominciare dal Giappone, hanno sottoscritto un’intesa che abbatte barriere su mercati che rappresentano il 40% del Pil mondiale. Un significativo risultato economico e politico, fortemente voluto dal presidente americano Barack Obama: rappresenta una potenziale iniezione di fiducia mentre l’economia mondiale dà segni di malessere ed è un patto strategico che argina la crescente influenza della Cina, fuori dall’intesa, premendo perché acceleri il suo cammino verso trasparenza e free market.
L’intesa, il cui testo in dettaglio con i suoi 30 capitoli sarà reso noto solo nelle prossime settimane, è stata raggiunta dopo un ultimo round di colloqui convocato ad Atlanta, in Georgia, che si sono protratti per cinque giorni e notti oltre la scadenza originalmente fissata per domenica. Con lo spettro di un nuovo fallimento alle porte, dopo i numerosi rinvi già avvenuti, i negoziatori hanno però trovato la via del compromesso sulle questioni rimaste scottanti, anzitutto farmaci e derivati del latte. I rappresentanti del Giappone avevano intimate che sarebbero ripartiti nella giornata di ieri, accordo o meno.
La disputa risolta in extremis ha riguardato la protezione di brevetti farmaceutici, sulla quale insistevano gli americani e che vedeva invece la resistenza di nazioni guidate dall’Australia interessate a velocizzare l’introduzione di prodotti generici. Il compromesso prevede ora una protezione tra cinque e un massimo di otto anni per farmaci biologici, rispetto alla richiesta statunitense di dodici anni. Difficili trattative in chiusura hanno avuto luogo anche sul settore auto, sui latticini e sull’insieme della proprietà intellettuale.
L’accordo alla fine è stato però sottoscritto attorno ad alcuni capisaldi: riduce progressivamemnte migliaia di dazi e barriere all’interscambio. Liberalizza i mercati agroalimentari, in particolare di Canada e Giappone che hanno accettato una riduzione delle barriere all’ingresso dei derivati del latte esteri. Rende comunque uniformi e più severe le norme sui brevetti a vantaggio sia di società farmaceutiche che tecnologiche e di Tlc. Apre le froniere di Internet. Ancor più, dal punto di vista strategico, forgia un’alleanza per dialogare con forza con la Cina, esclusa dal negoziato e impegnata a creare un proprio patto economico asiatico. Tra i Paesi del Tpp voluto dagli americani oggi contano, oltre ai già menzionati Canada, Giappone e Australia, anche Perù, Cile, Nuova Zelanda, Messico, e numerose nazioni del Sudest asiatico dalla Malesia al Vietnam e Singapore.
L’accordo del Pacifico, ha fatto sapere la Casa Bianca, «sosterrà l’export del made in America e la creazione di posti di lavoro qualificati». Eliminando «oltre 18.000 tasse – sotto forma di tariffe – sul made in Usa rende i nostri agricoltori, allevatori, aziende manifatturiere e piccole imprese in grado di competer e vincere in mercati ad alta crescita». In dettaglio, hanno sottolineato gli americani, cancella tariffe che arrivavano al 70% nell’auto, al 59% sui macchinari e al 40% su pollame e frutta e al 35% sulla soia, oltre a migiorare l’accesso nei servizi e a garantire il rispetto di standard sulle condizioni di lavoro previsti dall’Ilo. I vantaggi sono stati celebrati anche dell’associazione delle aziende internazionali con attività negli Stati Uniti, la Ofii, che vede da parte sua l’aperture di nuove opportunità nel mercato Usa: “Possono essere creati 233.000 nuovi impieghi legati a investimenti diretti esteri negli Stati Uniti, che cresceranno di 20 miliardi”, ha dichiarato il direttore generale Nancy McLernon.
Il Tpp, forte di simili promesse che ora dovrà mantenere, è diventato così una cruciale seppure sofferta vittoria per Obama, che ne aveva fatto una priorità del suo secondo mandato alla Casa Bianca sfidando l’opposizione di numerosi esponenti del suo partito democratico e i sindacati. Una battaglia politica che non è affatto finita: dovrà ottenere nei prossimi mesi l’approvazione dell’intesa da parte del Congresso che si prepara ad un anno elettorale. Anche tra le aziende non manca l’opposizione: Ford ha chiesto ieri di non approvare il TPP nell’attuale forma. Ma l’accordo adesso c’è e, se Obama avrà ragione, potrebbe sopravvivere alle manovre parlamentari. A quel punto l’attenzione, oltretutto, potrà essere rivolta all’altro grande progetto di accordo commerciale e strategico: il patto transatlantico con l’Europa, la Transatlantic Trade and Investment Partnership.
Marco Valsania
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Una mano all’Abenomics
Era già buio a Tokyo quando da Atlanta è arrivata la notizia del decollo della Trans-Pacific Partnership. Il primo ministro Shinzo Abe ha convocato per stamattina alle 10 una conferenza stampa in cui è facile prevedere che lancerà un messaggio di ottimismo: la Tpp non deve far paura, in quanto il Paese è destinato a trarne ampi benefici nel quadro di una evoluzione in sintonia con gli scopi dell’Abenomics.
Con la sua adesione tardiva (nel 2013) ai negoziati multilaterali di libero scambio Asia-America, Tokyo non solo ha cambiato la natura della Tpp dandole una portata ben maggiore, ma ha potuto realizzare in sostanza un Free Trade Agreement con la prima economia mondiale. Probabilmente non sarebbe stato possibile un Fta bilaterale con Washington: le ostilità interne, radicate anche nei passati contenziosi commerciali, in entrambi i Paesi sarebbero state ben più forti. Inserendosi invece nel “rebalancing” americano verso l’Asia, quanto non era realistico fino a due anni fa diventa un fattore fondamentale per gli indirizzi della terza economia mondiale. Anche perché sembra destinato a far uscire dallo stallo anche i negoziati per un Economic Partnership Agreement tra il Giappone e l’Unione Europea: il prossimo round (il tredicesimo) potrebbe far segnare un decisivo passo avanti.
Se finora all’Epa teneva di più Tokyo (irritata per l’Fta tra Bruxelles e la Corea del Sud), ora diventa più chiaro l’interesse collettivo europeo ad evitare svantaggi competitivi sul mercato nipponico. La più netta volontà politica di arrivare a una intesa non renderà insormontabile il prevedibile braccio di ferro finale tra una Ue che cercherà di ottenere tutto quanto concesso da Tokyo agli Usa in ambito Tpp e un Giappone che proverà a dare un po’ meno o a ottenere qualcosa di più di quanto ventilato finora. Quello che era apparso come “wishful thinking” al vertice Ue-Giappone dello scorso maggio – ossia la conclusione di un accordo di massima entro fine anno – entra nell’ordine delle possibilità concrete.
Il premier Abe è reduce da un calo di popolarità per aver perseguito con decisionismo un altro nodo fondamentale per il rafforzamento dell’alleanza con gli Usa: il passaggio parlamentare delle nuove controverse leggi sulla sicurezza che consentiranno alle Forze di Autodifesa di intervenire anche all’estero in soccorso di mezzi militari americani sotto attacco. La sua immagine potrà migliorare come “uomo del fare” che torna a concentrarsi sull’economia e accelera il lento procedere di riforme sistemiche. Contro una parte consistente della base elettorale del suo partito (a partire da quella rurale), Abe ha sposato con decisione, promuovendo la Tpp, i desideri dei settori economici che stanno guardando sempre più all’estero e sempre meno al declinante mercato interno. Per la potente Keidanren (la Confindustria giapponese), il prezzo di una maggiore concorrenza sul fronte domestico è più che accettabile in cambio di più ampie opportunità di espansione internazionale, tanto che il suo presidente Sadayuki Sakakibara aveva espresso persino il desiderio che le trattative di Atlanta si concludessero “whatever it takes”.
Non a caso ieri, sull’onda delle anticipazioni sull’imminente conclusione dell’intesa Tpp, l’indice Nikkei ha guadagnato l’1,6% tornando sopra quota 18mila sulla spinta degli acquisti sui titoli delle società esportatrici e di trading. Se la storia è maestra, allora in Giappone vale la regola secondo cui i cambiamenti sono promossi o almeno accelerati da pressioni esterne (“gaiatsu”).
Stefano Carrer