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 2015  ottobre 06 Martedì calendario

Rai, il tetto 240 mila euro lordi annui è durato lo spazio d’un mattino. Perché fatta la legge che metteva un limite agli emolumenti nelle società controllate dallo Stato si è subito trovata la via d’uscita. Ai vertici della tv pubblica spiegano che è stato semplicemente applicato un doveroso criterio meritocratico in base al quale soltanto ad alcuni, dopo l’emissione di quei bond, è stato concesso di sforare

Il tetto agli stipendi Rai? Fa acqua da tutte le parti. Il tentativo di fissarlo a 240 mila euro lordi annui – che non sarebbero, diciamolo, proprio da buttar via – è durato lo spazio d’un mattino. Perché fatta la legge che metteva un limite agli emolumenti nelle società controllate dallo Stato si è subito trovata la via d’uscita. 
A sollevare il caso presentando una interrogazione parlamentare è (il solito) Michele Anzaldi, renziano doc. Lo stesso che nei giorni scorsi aveva accusato il Tg3 di Bianca Berlinguer di dare troppo spazio ai dissidenti pd, scatenando una bufera politica. La palla gliel’ha alzata lo stesso premier Matteo Renzi annunciando la decisione di mettere il canone tv nella bolletta elettrica «per recuperare l’evasione e far pagare tutti». E di conseguenza garantire introiti certi al servizio pubblico. Scrive Anzaldi: «L’azienda dovrebbe chiarire in piena trasparenza se è vero che non applica più il tetto agli stipendi pubblici di 240 mila euro». Il tetto era stato voluto infatti dal governo di Mario Monti nel 2011. «Si chiede di sapere – si legge ancora nell’interrogazione presentata dal segretario della commissione parlamentare di Vigilanza – se a seguito dell’emissione di strumenti finanziari quotati, la direzione della Rai abbia deciso di rimuovere il limite dei 240 mila euro prima applicato ai dipendenti che lo superavano. E se corrisponda al vero che la Rai abbia richiesto all’Avvocatura dello Stato un parere in merito all’applicabilità ai propri dipendenti del limite dei 240 mila euro».
Domande retoriche. Anzaldi sa bene infatti che il tetto previsto appunto dal decreto legge 201 del 2011 dal governo Monti – recepito dalla Rai nel bilancio del 2014, approvato dal Tesoro – è stato facilmente aggirato. E sa che l’Avvocatura dello Stato si è già espressa nel maggio scorso – dopo aver consultato il ministero dell’Economia – stabilendo che 42 dirigenti di viale Mazzini avrebbero dovuto restituire le somme eccedenti i 240 mila euro percepiti dal maggio del 2014.

SÌ AL MERITO
Dopo qualche giorno l’allora dg Luigi Gubitosi rivelò che era stato accantonato un “tesoretto” di 2 milioni di euro proprio a tale scopo. Che fine ha fatto? E come andò alla fine? Andò che fatta la legge arrivò la “leggina”: il decreto legge 66 del 2014 (governo Letta) che escluse dal tetto le società quotate in Borsa e le società che emettono titoli negoziati sui mercati. E si dà il caso che la Rai, a distanza di poche ore proprio da quel parere dell’Avvocatura, emise la prima obbligazione azionaria della sua storia per un importo di 350 milioni (andato peraltro a ruba). 
E Viale Mazzini? L’azienda è sempre stata restia a pubblicare gli stipendi dei propri dirigenti, come pure sarebbe previsto dall’articolo 27, comma 7, del contratto di servizio. Ai vertici della tv pubblica spiegano che è stato semplicemente applicato un doveroso criterio meritocratico in base al quale soltanto ad alcuni, dopo l’emissione di quei bond, è stato concesso di sforare il tetto. «La Rai è un’azienda normale, gli stipendi non li facciano noi ma li fa il mercato», è il ragionamento che si fa al 7° piano. L’entità degli stipendi è sempre stata top secret «per non alterare il gioco delle concorrenze» e perché creerebbe «una evidente asimmetria nel settore televisivo», come ebbe a spiegare dopo essere stata interpellata l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. L’ex dg Gubitosi in audizione a San Macuto rivelò che il suo stipendio ammontava a 650 mila euro lordi (lo stesso compenso del suo successore, Campo Dall’Orto) che 3 dirigenti superavano i 500 mila euro, 1 tra 400 e 500 mila, 4 tra i 300 e 400 mila e 32 tra i 200 e 300 mila mentre tra i 322 giornalisti-dirigenti uno solo superava i 500 mila, 3 tra i 400 e il 500 mila e 34 tra i 200 e i 300 mila.