Corriere della Sera, 6 ottobre 2015
Diego de Henriquez, il professore che archiviava reperti bellici per promuovere la pace: si ispira alla sua storia l’ultimo romanzo storico di Claudio Magris, "Non luogo a procedere". Ambientato a Trieste all’ombra della Risiera di San Sabba
Un gran libro. L’ha scritto Claudio Magris, si intitola Non luogo a procedere. Racconta l’ossessione di un uomo che per decenni colleziona armi, fucili, mitraglie, cannoni, aerei e divise militari. Non è mai sazio, possiede un U-Boot della Marina imperialregia, vorrebbe l’elmetto tedesco che aveva in testa Mussolini quando fu catturato dai partigiani a Dongo, desidererebbe un T-34, il carro armato che con il suo cannone da 76,2 millimetri salvò la Grande Madre Russia quando Hitler l’attaccò a sorpresa nel 1941. È un archivista della guerra, non perché ami i suoi orrori, ma, al contrario, perché ritiene la pace il bene sommo dell’umanità, convinto che il sogno del suo Museo, da costruire a Trieste, sia un potente modo per ricordarlo.
L’uomo, un professore, è veramente esistito, viveva in un capannone gremito dei suoi ordigni, dormiva in una lunga bara, morì nel 1974 in un rogo misterioso che distrusse buona parte dei suoi cimeli. Nonostante i processi, non si seppe mai la verità. Sparirono anche i suoi preziosi taccuini su cui aveva annotato fatti e misfatti, tra l’altro le scritte che i morituri avevano lasciato sui muri della Risiera di San Sabba, l’unico lager nazista in Italia dove, in una vecchia fabbrica rossastra e nerastra alla periferia di Trieste, funzionò, tra il 1943 e il 1945, un forno crematorio, dove furono gasati con il Zyklon B migliaia di partigiani italiani e jugoslavi, ebrei, antifascisti e molti altri furono torturati, sgozzati, uccisi a colpi di mazza sulla nuca.
Le scritte dei deportati sulle pareti degli stanzoni della Risiera e sui muri delle 17 celle furono poi cancellate, calcificate, ma il professore (Diego de Henriquez) le aveva ricopiate – sui taccuini scomparsi – in dialetto, in italiano, in sloveno, testimonianze delle ultime ore dei prigionieri. Tra quei graffiti potevano esserci anche i nomi delle spie, dei traditori, dei doppiogiochisti, dei profittatori che li avevano denunciati e fatti condannare a morte. Il mistero non ha mai avuto risposta.
A Claudio Magris quella storia dev’essere rimasta da sempre negli occhi e nel cuore. Il suo romanzo prova nel profondo come la realtà sia creatrice: è un poema epico, politico, religioso, poetico, nutrito di tormento, di dolore, di spirito d’avventura, di morte. Una sorta di giudizio universale. Non è un libro verità, ma un romanzo, segno di alta letteratura che fa sembrare ancora più mediocri gli autoreferenziali romanzetti da pianerottolo di moda oggi.
Il libro di Magris, unico nella sua struttura, senza modelli, si legge con la voglia di sapere alla fine di ogni pagina quel che accade nella pagina che viene dopo. È anche un alberone con tanti rami, una matrioska delle meraviglie e delle nequizie. Nella sua pancia, infatti, si incrostano un’infinità di romanzi, racconti, storie che poi si ricompongono in unità di stile. Come ogni romanzo storico è popolato da personaggi d’invenzione, la bella color ebano, «la più rara e preziosa delle perle», e uomini in carne e ossa: il vescovo Santin, fatto rivivere in un mirabile ritratto, le SS delle polizie naziste – Sicherheitsdienst, Sonderkommando —, il soldato Otto Schimek e la difficile ricerca della verità e don Edoardo Marzani, torturato a San Sabba, scampato alla ciminiera, che, libero, diede il segnale dell’insurrezione facendo suonare tutte le campane della città.
Il romanzo – costato al suo autore la fatica di anni – ha per protagonista, anzitutto, il lui senza nome, «un imbarazzante maniaco o un arcangelo della giustizia e anche della vendetta», e poi Luisa, il controcanto di grande fascino. È la giovane donna che riceve l’incarico di elaborare il progetto del Museo, il grande Museo del mondo offeso, si potrebbe dire. Con lei sua madre Sara, l’ebrea triestina che non riesce a cancellare il rimorso di essere sopravvissuta alla Shoah, e il padre, il sergente afroamericano Brooks, arrivato a Trieste con la 92ª Divisione di fanteria di soldati neri che, salvatosi dalla ferocia della guerra, morirà in un banale incidente sulla pista dell’aeroporto di Aviano. «Il volto del padre poteva rivelare una tristezza ancora più profonda, più antica: una storia anch’essa di schiavitù in Egitto e di cattività babilonese, di Galuth, di esilio, che risaliva ai tempi remoti e si dilatava in spazi non meno vasti di quelli in cui i figli di Israele si erano sparsi per tutta la terra. Come apparivano sfuocate, banali, rispetto alla faccia nera di suo padre e a quella di sua madre dai grandi occhi obliqui come lune (...) le facce degli altri, dei conoscenti che si incontravano in ufficio o a cena».
Luisa ha il compito di dare un ordine ai materiali informi, alla babele di oggetti ammucchiati, dai carri armati alle sciabole alle giberne ai libri degli scienziati della guerra, Sun Tzu, Raimondo Montecuccoli, Carl von Clausewitz, Mao Zedong, Giap. Non è un’impresa facile.
Nella sala n. 8 pensa di collocare un cassone che contiene le marmitte per le cucine da campo: «Mangiare carne, palpare carne, macellare carne. Non si fa economia di carne ai festini della morte».
Nella sala n. 11 pensa di collocare la mitraglietta Saint-Étienne, mod. 1907, cartucce da otto millimetri: «Gli ufficiali che ordinano di puntare la mitragliatrice non hanno occhi per i soldati che se la caricano in spalla, la sistemano, puzzano e crepano in trincea».
Nella sala n. 22, la più grande, pensa di collocare un obice da 305/17, 33,8 tonnellate, usato a Caporetto, poi dal generale Franco in Spagna e, di nuovo, nella Seconda guerra mondiale: «Mostra una specie di enorme sella, sella gigante di un cavaliere dell’Apocalisse, colossale ma goffo bersaglio di morte più che sterminatore».
Il museo immaginario diventa un libro stampato, le sale sono i capitoli della vita e della morte. Magris parte sempre da un punto, poi cala negli inferi della memoria e racconta brandelli di storia patria e universale. Dall’attentato a Reinhard Heydrich, uno dei pianificatori della soluzione finale, giustiziato dai paracadutisti cechi nel 1942 a Praga, alla strage di Lidice ordinata da Hitler per rappresaglia; dalla mazza di legno degli Zapote (III secolo d.C.), la Macuahuitl, in uso presso gli Aztechi, a San Juan de Puerto Rico ai Conquistadores, agli arrembaggi, ai naufragi, ai tesori, alle canzoni creole; dalle scarpe del partigiano titino abbandonate su un marciapiedi – «una bandiera, la bandiera del vincitore, assai più di quel pomposo vessillo che poco più tardi, mitra alla mano, i titini imporranno sulle finestre del municipio» – al berretto con la stella rossa di un partigiano del IX Corpus raccolto in via Rossetti, agli spari di tutti contro tutti nell’aprile 1945. I titini disarmano i partigiani italiani, i comunisti sparano sugli antifascisti del Cln, i nazisti non se ne sono ancora andati e fucilano 11 italiani per rappresaglia. Un inferno di morte, altro che la libertà sognata.
La Storia, nel romanzo, è protagonista. Per Claudio Magris, che ha ricreato e scritto i famosi taccuini andati perduti, non è di certo maestra di vita: «La Storia è una crosta di sangue»; «Il treno della Storia ha un alito cattivo»; «La Storia è un libro tavolare, come vengono chiamati a Trieste i registri immobiliari col vecchio termine in vigore nell’Austria Absburgica»; «La Storia è una discarica di rifiuti»; «La Storia è un elettroshock»; «Quanti miliardi di miliardi di cellule e di connessioni ha la Storia? “Per la sua estensione”, dice il referto della risonanza, “il tumore è giudicato inoperabile”»; «Tutta la Storia umana è un raschiamento della coscienza e soprattutto della coscienza di ciò che sparisce».
Ma è la Risiera di San Sabba, «prova generale dell’inferno», a pesare nel cuore più segreto di questo libro, ombra cupa, cappa di piombo, di fuoco e di morte. Quel fumo del camino non ha smesso di intossicare il mondo. Claudio Magris ha scritto grottesche pagine su una festa al Castello di Miramare dalle bianche torri il 20 aprile 1945, alla vigilia della fine di quel che allora inquinò il mondo. Sta per sfaldarsi tutto, ma il supremo commissario del Litorale Adriatico, il gauleiter Friedrich Rainer, apre il suo ricevimento urlando contro la Slavia rossa, e levando il bicchiere alla salute del Führer che ha pochi giorni di vita. Plaudono generali cosacchi, cetnico-serbi, transfughi in nome della lotta contro il bolscevismo. E con loro alzano gli ultimi calici tedeschi, croati, sloveni. Una tragedia mascherata. Gli italiani, poi, il prefetto Coceani, il federale Sambo che parla servilmente in tedesco, gli armatori, i costruttori, gli assicuratori, il vicepresidente degli industriali che legge un caloroso messaggio alla grande Germania del presidente. I vantaggi non sono mancati neppure in quegli anni foschi. Sieg Heil.
Dopo il pranzo, nella sala delle udienze, gli ospiti lasciano le tavole imbandite, gli ufficiali con le giubbe sbottonate, i borghesi con la faccia resa lucida dai brindisi. Vanno su e giù per il Castello, la Sala della rosa dei venti, la Sala dei gabbiani, la Sala del trono dove l’arciduca Massimiliano non fece in tempo a sedere. E poi nel parco, a passeggiare tra le araucarie, le azalee e i ginko biloba, canticchiando in tedesco «La Paloma», strofinandosi a vezzose signore accanto alla copia della Venere di Milo. Il fumo intanto seguitava a uscire dal camino della Risiera, vicino allo stadio.
«Avvoltoi e iene di tutto il mondo unitevi, ignari di essere invece carogne e carcasse il cui fetore sta già richiamando i necrofori», scrive Magris.
A Trieste dopo la guerra non si parlò di quel che era accaduto nella Risiera di San Sabba. Anni di silenzio, di rimozione. Anche i poeti senza colpe tacquero. I nazisti se ne andarono e si rifecero la vita con pochi danni, i repubblichini ancor meno, qualcuno prese persino la medaglia al valore. I collaborazionisti, i doppiogiochisti, i responsabili delle spiate, i signori della città, anche non collusi con i nazifascisti, stettero zitti come i loro colleghi che avevano tratto sinistri guadagni nei traffici di quegli anni.
I processi furono insufficienti, mancò la pressione e la forza di un’opinione pubblica consapevole. Non luogo a procedere sembra davvero la voce della giustizia mancata, il debito che una comunità paga dopo più di settant’anni, il grido del bambino innocente di allora, diventato un grande scrittore, che invita a non dimenticare quel mondo corrotto e inconciliabile.