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 2015  ottobre 06 Martedì calendario

I giovani palestinesi dicono addio alla Kefia. La terza Intifada si fa in jeans e su Facebook. La «rivolta che nasce da gesti individuali». Attacchi con il coltello, le molotov, i sassi o i petardi incendiari avvengono «da parte di giovani che non vogliono l’occupazione» e attaccano «in maniera disorganizzata, quindi imprevedibile e più difficile da neutralizzare per gli israeliani»

Per conoscere l’Intifada 3.0 dal di dentro bisogna salire sul furgoncino di Mustafa Rmouz. L’appuntamento è a Qalandiya, il campo profughi alle porte di Ramallah, dove vive con moglie, 4 figli – di cui 3 femmine – e l’inseparabile «carta di identità blu». Si tratta del documento di identità israeliano per i palestinesi di Gerusalemme che gli consente di muoversi liberamente attraverso i posti di blocco, di lavorare trasportando ogni sorta di merce fra Stato ebraico e West Bank, e di essere un tassello di collegamento fra le diverse città palestinesi teatro di aspri scontri contro soldati e polizia. 
«Questo furgoncino serve il popolo palestinese in tanti modi – racconta – a cominciare dal fatto che spesso lo uso per portare gli anziani dentro i territori palestinesi del 1948, a Jaffa, Lod e Akko per fargli vedere la loro terra, guardare il mare, le loro case da cui vennero cacciati nel 1948 dove oggi si sono gli israeliani». Quarant’anni, con alle spalle due arresti – nel 1992 e 2004 – Mustafa ricorda la Prima Intifada e ha partecipato alla Seconda Intifada, ma assicura che «questa rivolta è qualcosa di molto diverso». Lo racconta guidando lungo le strade che, attraverso più posti di blocco, lo portano da Ramallah a Beiyt Jalla, vicino a Betlemme dove è stato ucciso il 12enne Abed al-Rahman Shadi Obeidallah. 
«Gesti individuali»
«Si tratta di un’Intifada diversa perché non è guidata da leader, partiti o movimenti – dice – perché Abu Mazen non ha un esercito, Hamas è lontana dalla gente comune e i nomi dei leader che vanno sui giornali sono delegittimati, nessuno gli crede più». Si tratta dunque «di una rivolta che nasce da gesti individuali». Attacchi con il coltello, le molotov, i sassi o i petardi incendiari avvengono «da parte di giovani che non vogliono l’occupazione» e attaccano «in maniera disorganizzata, quindi imprevedibile e più difficile da neutralizzare per gli israeliani». I protagonisti appartengono a una nuova generazione di palestinesi.

Rmouz esita a chiamarli «militanti» o «attivisti» perché gli rimprovera di essere «politicamente impreparati» e anche «deboli sulla simbologia nazionalista» perché «anziché kefyah a scacchi bianconeri e colori palestinesi» vestono con «jeans rotti alle ginocchia e magliette dai colori accesi» senza contare «il gel nei capelli» e lo stile di vita «assai occidentale». Sono i «ragazzi cresciuti nel benessere di Ramallah» come anche «nei campi profughi di Hebron e Jenin» che seguono percorsi diversi e si ritrovano sulle strade dell’Intifada 3.0 perché accomunati da «due battaglie».
Le «ragioni di lotta»
La prima e più importante, assicura Rmouz che a Qalandiya presiede il «Comitato eventi e reclutamento» del campo profughi abitato da 25 mila anime, è «la volontà di impedire agli israeliani di impossessarsi di Al Aqsa». La moschea sull’«Haram el-Sharif» della Città Vecchia, terzo luogo sacro dell’Islam «che gli ebrei hanno iniziato ad aggredire nel 1967» con la Guerra dei Sei Giorni, e «ora vogliono occupare del tutto sfruttando la debolezza del mondo arabo lacerato dalle guerre». Al Aqsa è un richiamo islamico, religioso, per militanti che usano Facebook per ritrovarsi e colpire gli israeliani «facendo attenzione a usare pagine collettive perché quelle singole sono una trappola, la polizia ti scopre facilmente».
Poi c’è la «seconda ragione di lotta» e ha a che vedere con «gli arabi di Gerusalemme» che l’autista-staffetta descrive «isolati, assediati, bisognosi di essere soccorsi e salvati» perché «l’occupazione israeliana li stritola» e a dimostrarlo è il fatto che «quando gli scontri diventano duri, solo in pochi di loro si battono davvero contro i soldati».