il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2015
Sessant’anni di Espresso: Antonio Padellaro sfoglia e commenta il primo numero del settimanale, uscito nel 1955
Nel 1955 avevo dieci anni e ricordo che quando mio padre rientrava all’ora di pranzo lasciava all’ingresso il pacco dei giornali, ben ripiegati sotto una borsa di cuoio marrone che fungeva da sentinella.
Sfogliare quelle pagine non era vietato come muovere all’attacco della panciuta bottiglia di Stock 84, chiusa a chiave nella credenza in salotto o aspirare velocemente la Macedonia Oro lasciata ad ardere nel posacenere, ma insomma.
La mia lettura preferita era Il Borghese e non tanto per i caustici articoli di Gianna Preda il cui stile avrei apprezzato più tardi.
I cultori della materia sanno che quel settimanale, piuttosto nostalgico del Ventennio che fu (nostalgia condivisa nella mia famiglia, ma questa è un’altra storia), aveva al centro del fascicolo uno strepitoso inserto fotografico teso a testimoniare in modo plastico la decadenza dei costumi indotta dalla sopravvenuta e molle democrazia. Immagini della nuova classe dirigente democristiana “forchettona” (un Cafonal ante litteram), colta nell’atto d’ingurgitare avidamente cibo d’ogni natura (indimenticabile il primo piano mostruoso di un tale onorevole socialdemocratico Lupis, provvisto di adeguato gemello), si alternavano a inebrianti foto di signorine scollacciate, impegnate in attività notturne e definite nelle didascalie “peripatetiche” (parola che nella mia ignoranza adolescenziale associavo a pratiche innominabili e dunque irresistibili). Come si sarà capito, se Il Borghese aveva significato l’evoluzione iconografica della lussuria, dopo le sbirciate, piuttosto insoddisfacenti, di donne Bantu discinte sulla Treccani, l’arrivo dell’Espresso nel magico pacco dei giornali mi suscitò la stessa eccitata curiosità dei nativi Arawak al momento dello sbarco di Colombo nelle Americhe.
Tutta questa premessa per dire la verità (insomma, la sera non andavo in via Veneto) sul mio primo interessato contatto con questo monumento del giornalismo italiano, di cui si festeggiano i primi sessant’anni con l’affascinante mostra romana al Vittoriano curata da Bruno Manfellotto. Quando, dopo tanto tempo, sono ritornato a sfogliare quel primo Espresso formato lenzuolo (splendida idea riprodurlo con il numero celebrativo del settimanale), confesso di essere andato subito a ricercare certe reminiscenze e sapori. Beh, nessun si offenda ma, nello specifico, l’Espresso delle origini mostrava un’austerità un po’ bacchettona: con l’eccezione, tre anni dopo, della strepitosa fotocronaca dello spogliarello di Aïché Nana al Rugantino (ma non vorrei sbagliarmi con Lo Specchio di Olghina di Robilant). Ritratti di signore antiperoniste piuttosto in carne in quel di Buenos Aires, e di accollatissime mannequin dell’atelier Schuberth. Mentre non ricordavo le gambe tornite della signora Hilda Carrajo, che alzando vezzosamente la gonna “guada una strada allagata di Mc Allen (Texas)”. Sessant’anni dopo, giunto (forse) all’età della ragione, ho ricominciato dalla prima pagina, assaporando le successive 15, riga per riga: vi assicuro, una delizia.
La foto di copertina andrebbe incorniciata come il più espressivo ritratto del razzismo trionfante di ogni epoca e luogo. A Sumner (Mississippi), J. W. Milam e sua moglie in posa dopo l’assoluzione. Lui è accusato per il linciaggio del ragazzo di colore Emmett Till, giunto da Chicago in vacanza e ignaro della separazione razziale esistente nel sud. La sua colpa: aver fischiato d’ammirazione al passaggio di una donna bianca. Una giuria di soli bianchi giudicò le prove insufficienti ed ecco Milam, tronfio e impunito, che se la gode assaporando un grosso sigaro con la signora Milam che se lo stringe orgogliosa e gli fa le fusa. A pagina 3, il reportage di Gian Carlo Fusco sull’Argentina del dopo Peròn è un pezzo di grande letteratura. “Cento coccarde per Evita”: un titolo che canta, come si dice in gergo. Uno stile già modernissimo nella stesura dei pezzi e nella loro confezione che unisce sintesi e sostanza e che la scuola dell’Espresso ha insegnato alla stampa italiana, sottraendola al formalismo elzevirista.
La letteratura, del resto, si fa cronaca con Corrado Alvaro e Luigi Compagnone, mentre la cronaca sforna pezzi d’antologia come nel “Tassametro della paura” di Paolo Pernici, ritratto dei tassisti romani nella violenza urbana che sembra scritto oggi. Come assolutamente contemporaneo è lo spazio gossip “Che fanno?” (la figlia di un diplomatico cileno “non entusiasta di Capri” o “il conte Paolo Marzotto che si è sposato a Baden Baden con Florine Daniel di ventun anni”). Più piccante la rubrica l’“Effimero”, dove in piena Dolce Vita si legge dei principi Ruspoli, Pignatelli e Orsini e di un nuovo locale notturno, anche se “non è stato loro concesso di chiamarlo, come volevano, ‘La Fogna’”. Per non parlare delle “brevi” sportive in cui si fa presente, quasi di sfuggita, che il famoso ciclista francese Louison Bobet “sta scontando con un forte esaurimento le droghe di cui ha abusato durante l’anno”, cosa che allora era perfettamente lecita.
Oppure il decalogo imposto ai giocatori della Fiorentina, che non potranno concedere interviste non autorizzate dalla società e che saranno “multati se visti in motocicletta o motoscooter”; quanto all’uso dell’automobile “potrà essere vietato, a discrezione del consiglio”. Perfino superfluo enumerare le firme, pietre angolari di quell’illuminismo liberale dei “quattro gatti” che inoculerà vaccino laico nello Strapaese incolto e bigotto: Alberto Moravia, Bruno Zevi, Lionello Venturi, Massimo Mila, Manlio Cancogni. E, ça va sans dire, Eugenio Scalfari il cui talento per il giornalismo di relazione già si dispiega promettente: come nel colonnino encomiastico (anonimo ma inconfondibile) dedicato all’“economista silenzioso”, Guido Carli, futuro governatore di Bankitalia. Del resto, in quel primo Espresso che pubblica il “Diario di un insegnante”, a firma Antonio Segni, ex insegnante ma soprattutto presidente del Consiglio in carica, emerge il profilo di un giornalismo per nulla antisistema. Quanto piuttosto una sorta di inviato speciale collettivo nel sistema di potere, con la funzione (pedagogica e qualche volta saccente) di coscienza critica. Per una classe politica abituata ai salamelecchi dattilografi di una stampa conformista (ma guarda un po’), le inchieste dell’Espresso saranno un vero choc e l’uscita in edicola, ogni settimana, temutissima.
Ho dovuto aspettare 35 anni per trasferirmi dalle pagine alle stanze dell’Espresso, nella palazzina rosa di via Po. Era il 1990 e dopo un ventennio al Corriere della Sera, chiamato da Giovanni Valentini, ci sono rimasto nel successivo decennio con la direzione di Claudio Rinaldi e poi di Giulio Anselmi. Mi sono divertito moltissimo e in quella redazione di incoscienti ho imparato che il giornalismo è una cosa troppo seria per essere noiosa. E che (per dirla con Tom Wolfe) un mese senza una bella rissa con qualcuno è un mese buttato via.