la Repubblica, 3 ottobre 2015
Le cinque bambine che si sono fatte esplodere in Nigeria per conto di Boko Haram. Tentativo di entrare nella testa di quella di nove anni. I fondamentalisti islamici hanno usato le donne per i loro attentati suicidi 49 volte nell’ultimo anno
È già successo, ma c’è sempre un gradino più infame: cinque bambine mandate insieme a esplodere all’entrata di una moschea all’ora della preghiera della sera. La loro età può essere solo ricostruita a occhio dai testimoni superstiti: la più piccola, dicono, avrà avuto nove anni. Sarà stato più facile per loro andare insieme, le più grandi che facevano coraggio alle più piccole – o viceversa, chissà. I morti (dicono le notizie, ma il conto è destinato a crescere) sono 14, «comprese le bambine». Non so se chi ha redatto così la notizia l’abbia fatto distrattamente, o si sia fermato a riflettere. Altre volte si leggono frasi diverse: «Ci sono state 9 vittime, oltre agli attentatori». Si sta attenti a mettere in un conto a parte gli attentatori, specialmente quando siano avidi della propria morte. Qui nessuno può essere tentato di togliere le bambine dal conto delle vittime. Ci si interroga angosciosamente: si rendono conto, le attentatrici suicide, di ciò cui vanno incontro? Gli esperti avvertono che i loro congegni esplosivi possono essere fatti detonare a distanza, e a insaputa delle poverette su cui sono stati caricati. Altri spiegano come sia possibile indottrinare fino all’ottusità, o all’entusiasmo, creature fragili strappate alla loro vita e rimodellate dalla violenza fisica e dalla suggestione psicologica dei carcerieri, e come le donne e le bambine siano più vulnerabili. C’è un triste repertorio internazionale di donne e ragazze votate alla morte altrui e propria. Ma le “vedove nere” cecene, adolescenti a volte, non avevano nove anni, e anche quando, spesso, erano forzate, erano pur sempre parte del popolo e della cultura che le mandava a morte. Qui c’è il raccapriccio nuovo, se non nelle più terribili immaginazioni letterarie, di donne e bambine tolte alle proprie case e magari alla propria religione e “convertite” a diventare armi micidiali contro la propria gente e contro se stesse. È inevitabile arrovellarsi attorno a questo dilemma, spingersi a immaginare con che animo cinque bambine e ragazze abbiano percorso l’ultimo tratto della loro strada: purché non si ceda alla pazzia di ritenerle responsabili o colpevoli. Che la piccola di nove anni sappia o no che sta andando a uccidere e a morire, che sia lei a tirare una maniglia sulla cintura o un telecomando di farabutti a distanza, lei è la vittima, e i farabutti sono gli assassini. Assassini e vigliacchi. Mi è tornato in mente un episodio di tanti anni fa, palestinese, credo: i soldati israeliani avevano fatto fuoco su un asino che veniva loro incontro, e si giustificarono dicendo che era successo davvero, in passato, che si fosse usato un asino per un attentato. Non paragonerei un asino a una bambina, naturalmente, salvo che per una cosa che li accomuna: l’innocenza. È per questo che abbiamo reagito ieri, leggendo quel titolo, «Cinque bambine mandate a esplodere nella folla…», provando una stretta al cuore per le bambine, prima di avere il tempo di pensare anche ai poveri innocenti che hanno trovato la loro ultima sera, e forse anche fra loro c’erano bambine. Ora, ci sono luoghi della terra in cui i grandi si abitueranno a guardare le bambine chiedendosi se non si portino addosso una cintura esplosiva. E le bambine si chiederanno che cosa voglia dire lo sguardo improvvisamente diffidente e buio dei grandi. Fino a un paio di anni fa, erano pochi, dalla nostra parte del mondo, ad aver sentito nominare Maiduguri, il capoluogo dello Stato federale di Borno, nel nord est della Nigeria. È una città di un milione e mezzo di abitanti, musulmani in maggioranza, nel 2006 i tumulti eccitati dalle vignette danesi su Maometto vi costarono decine di morti e una dozzina di chiese distrutte. A Maiduguri era stata fondata nel 2002 Boko Haram, che dall’aprile di quest’anno ha deciso di chiamarsi Wilayat Ghrab Ifriqiyah, Provincia dell’Africa occidentale dello Stato Islamico. I suoi ripugnanti guerrieri conservano una micidiale capacità di seminare morte fra gli inermi grazie a due strumenti essenziali: gli IED, gli ordigni esplosivi artigianali, e le attentatrici “suicide”, donne o ragazze o bambine, mandate a esplodere nella folla dei mercati o delle moschee. Ieri ho rintracciato il catalogo degli attentati “suicidi” compiuti da donne o ragazze per conto di quei devoti: ne ho contati 49, dal primo, nel giugno 2014. (Poi ce ne sono, come uno nella capitale del Ciad, N’Djamena, compiuti da uomini travestiti da donne. Il burqa è stato messo fuorilegge). Non di rado le autrici erano in coppia. Ho trovato questa notizia del maggio scorso: «… I testimoni hanno riferito che una delle adolescenti è esplosa mentre si avvicinava a una moschea gremita per la preghiera pomeridiana, durante il ramadan; la seconda ragazza invece è scappata ed è esplosa lontano, uccidendo solo se stessa». Ecco, per un volta forse possiamo chiamarlo suicidio, senza virgolette.