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 2015  settembre 04 Venerdì calendario

Draghi ha dato l’impressione di non essere soddisfatto di come le autorità cinesi si sono comportate le cose nelle scorse settimane. Non hanno saputo gestire il rallentamento dell’economia e la volatilità della Borsa. Sono andati nel panico. Sul versante delle divergenze strutturali dell’Eurozona, ieri il capo della Bce ha ricordato che esiste un Rapporto dei 5 presidenti che «disegna un percorso verso una maggiore integrazione», sulla quale si può essere ottimisti. Ma si è trattato di un argomento laterale: l’arrivo di Pechino sul palcoscenico delle grandi crisi spinge i guai dell’architettura dell’euro in secondo piano. L’ultima crisi scaccia sempre la precedente

Non ce n’era bisogno, ma l’economia del mondo si è complicata parecchio, in questa estate d’instabilità dei mercati. Forse soprattutto per le banche centrali. Nella conferenza stampa di ieri a Francoforte, il presidente della Bce Mario Draghi ha riconosciuto che agosto ha segnato un peggioramento delle condizioni economiche globali, il che riduce le prospettive di crescita del Prodotto lordo e dell’inflazione nell’eurozona. E ha assicurato che l’istituzione che guida è pronta a fare di più e più a lungo se ce ne sarà bisogno. Ha però segnalato altre novità interessanti.
Soprattutto, il debutto della Cina nel teatro delle crisi. Draghi ha dato l’impressione di non essere soddisfatto di come le autorità cinesi hanno gestito le cose nelle scorse settimane. A cominciare dall’avere dato poche informazioni sugli interventi di mercato che hanno effettuato. «Ci aspettiamo di avere molta più visibilità di quella che abbiamo» durante il G20 finanziario che si apre oggi ad Ankara – ha detto in modo secco. Ciò che è successo sul mercato cinese il mese scorso, infatti, pone interrogativi seri. Si è visto – lo si sapeva – che il Paese è ormai un grande protagonista dell’economia e della finanza mondiali, non diversamente dagli Stati Uniti e dall’Europa. Finora, le autorità di Pechino erano apprezzate – forse oltre il dovuto —per la competenza con cui hanno gestito decenni di crescita e per l’affidabilità dimostrata nei confronti del resto del mondo, anche in momenti cruciali come la crisi del 2008.
Questa volta, però, di fronte al rallentamento dell’economia e alla volatilità della Borsa, non hanno solo preso misure contraddittorie, quasi avessero vissuto momenti di panico. Sono anche sembrate chiuse alla collaborazione internazionale. Il che apre un problema. La Bce e la Fed americana (ma anche la Banca del Giappone e la Banca d’Inghilterra) hanno raggiunto livelli di sofisticatezza di analisi e di intervento mai toccati prima dalle banche centrali: indipendenti l’una dall’altra ma mosse da un modello comune di analisi e di intervento. La situazione è invece risultata diversa nel caldo agosto cinese, dove le autorità – politiche, prima che monetarie – sono apparse confuse. Ieri, Draghi non ha detto niente di tutto questo. Ma ha chiesto «più visibilità», ha aggiunto che la situazione cinese sarà «uno dei temi più importanti» del G20 di oggi, ha detto di avere preso nota del fatto che la Cina ha affermato di volere rispettare gli impegni presi durante i G20 del passato in tema di tassi di cambio e che Pechino è impegnata a effettuare riforme per rendere convertibile lo yuan. La Cina non può più essere vista come uno show laterale nemmeno dalle banche centrali. Il calo delle sue aspettative di crescita – ha detto il presidente della Bce – ha due effetti. Uno viaggia attraverso i canali del commercio, «indebolendo l’economia del resto del mondo». L’altro è «l’effetto fiducia sulle Borse e sugli altri mercati finanziari». Durante la conferenza stampa, Draghi ha segnalato le difficoltà della Cina e dei mercati emergenti come il maggiore elemento d’incertezza, assieme al prezzo dell’energia, sulle prospettive dell’economia mondiale. E dunque l’origine della riduzione delle aspettative di crescita dell’economia e dell’inflazione nell’Eurozona alle quali la Bce potrebbe rispondere incrementando o allungando il programma di acquisto di titoli sui mercati lanciato a inizio anno. «Ora ci aspettiamo che la Bce continui l’acquisto di asset dopo il settembre 2016», ha commentato in seguito alla conferenza stampa la società di analisi Oxford Economics. «E che, se la recente volatilità di mercato e i problemi in Cina dovessero crescere, la dimensione degli acquisti mensili venga probabilmente incrementata». Diverso l’approccio della Bce – del tutto fiducioso – alla situazione non facile alla quale è di fronte l’americana Fed, che deve decidere se iniziare già ora ad aumentare i tassi d’interesse (non lo fa dal 2006) o se aspettare. «Se la scelta sarà necessaria per raggiungere gli obiettivi di politica monetaria della Fed – ha detto Draghi – ciò sarà positivo» per tutti.
Sul versante delle divergenze strutturali dell’Eurozona, ieri Draghi ha ricordato che esiste un Rapporto dei 5 presidenti (uno dei quali è lui) che «disegna un percorso verso una maggiore integrazione», sulla quale si può essere ottimisti. In particolare, prevede la creazione di un’istituzione comune nell’area dei bilanci pubblici nazionali, oggi gestiti da un sistema di regole, «non del tutto soddisfacente». Ma si è trattato di un argomento laterale: l’arrivo di Pechino sul palcoscenico delle grandi crisi spinge i guai dell’architettura dell’euro in secondo piano. L’ultima crisi scaccia sempre la precedente.