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 2015  settembre 01 Martedì calendario

Madame Bovary non sarebbe mai andata in un bed&breakfast e Lolita non avrebbe mai usato Airbnb. L’esperienza nei finti templi dell’accoglienza 2.0 è straziante e senza hotel la letteratura non sarà più la stessa

Humbert Humbert porterebbe mai la sua Lolita nelle occhiute stanze di un Airbnb? E dove andrebbe la signora Bovary a fare “lezioni di piano” con l’amante del giovedì? In un appartamento con divano a noleggio? Presso sconosciuti che giocano a fare gli albergatori? Che ne sarebbe, poi, della storia dei best-seller, inaugurata da Grand Hotel di Vicki Baum?… Ridateci i vecchi hotel polverosi, i motel con gli specchi rotti e le pensioni con la moquette muffa, non solo per il bene della letteratura! L’esperienza nei finti templi dell’accoglienza 2.0 è straziante, innanzitutto perché non è ospitalità, come sbandierato sul sito (“L’ospitalità è ciò che siamo e quello che facciamo”), ma di affitto, di pura transazione commerciale.
Cosa ben diversa dal sacro asilo offerto nel mondo antico ai viandanti, sotto le cui spoglie si temeva che potesse celarsi un dio: lì, addirittura, il padrone di casa era moralmente obbligato a donare all’ospite un regalo d’addio.
Ora, invece, è l’ospite a dover pagare per avere in cambio accoglienza, anche se a un prezzo inferiore rispetto a una, pur modesta, camera d’albergo; il malcapitato, inoltre, specie se single o molto squattrinato, è spesso costretto a soggiornare sotto lo stesso tetto dell’host, in italiano detto, parimenti, ospite.
La privacy ha un prezzo: anche per questo Airbnb e simili costano poco. Già al momento dell’iscrizione, l’ignaro viaggiatore si deve sottoporre a schedatura e può prenotare solo collegandosi a Facebook, Google o Linkedin. Se, per sua sventura, il tizio è un asociale, e non è su nessuna delle succitate piattaforme, deve farsi un filmato di presentazione: i futuri host, però, possono sempre negargli ospitalità. Tiè!
Il servizio di Airbnb è volutamente indiscreto e ficcanaso, basandosi pure sulle recensioni incrociate da parte di ospitanti e ospitati: senza dubbio Hercule Poirot e Jules Maigret non avrebbero passato l’esame perché, con loro ospiti, c’è sempre un delitto all inclusive tra i piedi; James Bond, viceversa, avrebbe dato ai suoi host un punteggio bassissimo, considerandoli pericolosi impiccioni e rimpiangendo la riservatezza ai limiti dell’omertà, di certi bisunti portieri notturni.
Seguendo la recita della cortesia e della buona educazione – forzate, dal momento che si è sottoposti a giudizio in mondovisione –, l’host accoglie il turista con la magica formuletta “Feel like home!” (rigorosamente pronunciata in inglese, anche se si sta entrando in un bugigattolo a Macerata), ignaro di cosa faccia realmente il pellegrino nel segreto delle sue mura casalinghe e dimentico dell’infausto incipit di Anna Karenina: “Famigliari e domestici sentivano che la loro vita insieme non aveva senso, e che le persone che s’incontrano per caso in una locanda qualsiasi erano forse più legate di quanto non lo fossero loro”. Proprio per spiare la varia umanità che si affolla, o meglio affollava, negli hotel, Henry James si era rifugiato nella ginevrina Pensione Beaurepas, che dà il titolo a un racconto appena riedito, con altri due, da Mattioli 1885: “Volevo fare carriera letteraria e un mio amico mi aveva detto: ‘Se vuoi scrivere, devi andare a vivere in una pensione; non ci sono posti migliori per raccogliere materiale’. Avevo letto qualcosa del genere in una lettera di Stendhal. Ricordavo anche la magnifica pensione del Père Goriot di Balzac”.
Pure Rimini di Pier Vittorio Tondelli, anch’esso ristampato da poco da Bompiani, offre squarci della Pensione Kelly e dell’omonimo albergo: “Hanno sempre detto che sono nato proprio nel momento in cui la polizia faceva irruzione al Grand Hotel, qui a Rimini, per sequestrare tutte le partecipanti a Miss Italia e controllarne i documenti”. Cose d’altri tempi, insomma, quando ancora gli alberghi e i concorsi di bellezza erano in auge e ospitavano finanche il set di Amarcord di Federico Fellini; altri tempi in cui i resort lussuosi, o gli ostelli di quart’ordine, se li filavano non solo i celerini ma anche gli intellettuali: l’austroungarico Savoy, ad esempio, fu addirittura protagonista di un racconto di Joseph Roth, mentre Goffredo Parise inserì “Hotel” tra le voci dei suoi Sillabari.
Scimmiottando il critico e filosofo György Lukács, si potrebbe dire che la letteratura è un “Grand Hotel Abisso”, sovraffollato e più o meno stellato: si va dalla locanda Almayer di Oceano mare di Alessandro Baricco al motel El Paso di Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy, dall’Albergo dei poveri di Maksim Gorkij all’elegante alloggio proustiano della Recherche in Normandia.
Negli alberghi dei romanzi perlopiù ci si ama o si muore: alla voce “amore” si vedano, ad esempio, la lolitesca locanda dei Cacciatori incantati citata da Vladimir Nabokov; la suite al Plaza di Gatsby e compagni, descritta da Francis Scott Fitzgerald; l’Atlantic degli amanti del Buon Dio di Manhattan di Ingeborg Bachmann; il des Roches di uno dei tanti amorazzi della Duras (Occhi azzurri capelli neri); il Boulogne di Emma Bovary e del suo creatore Gustave Flaubert; l’alberghetto dei neosposi di fronte alla Chesil Beach di Ian McEwan… Quanto al crepare, basterebbe frequentare il des Bains (Morte a Venezia di Thomas Mann, e poi nel film di Luchino Visconti), l’Overlook (Shining di Stephen King, e poi in Kubrick), il Bates Motel (Psycho di Robert Bloch, e poi in Hitchcock) o il palermitano Grand Hotel Delle Palme (Atti relativi alla morte di Raymond Roussel di Leonardo Sciascia), dove lo scrittore siciliano indagò sul misterioso suicidio del drammaturgo francese.
Anche Cesare Pavese si tolse la vita in albergo: accade alla fine della “bella estate” di 65 anni fa, ma questa non è proprio storia da romanzo.